Viaggio tra le ombre delle filiere commerciali. Quello che la pubblicità non dice
di Fiorenzo Testa
6 giugno 2019
1. Introduzione
“Non dobbiamo mai dimenticare che noi siamo il cibo che mangiamo. Il cibo, o distrugge la nostra salute o ci nutre. La connessione fra produzione e consumo del cibo è il luogo in cui possiamo tornare a curare la terra e reclamare la nostra libertà. Noi non siamo consumatori, siamo parte della rete alimentare, possiamo scegliere, Mangiare è un atto politico. Di scicuro è un atto economico, perché ciò che mangiamo sostiene un sistema o l’altro” (Vandana Shiva).
L’attuale modello produttivo dominante, basato sull’industria manifatturiera, sull’agricoltura industriale ad alto input chimico e sulla grande distribuzione, ha fallito i suoi obiettivi dal punto di vista sociale, occupazionale e culturale; contribuisce in maniera decisiva all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere e immette nell’ambiente una notevole quantità di sostanze inquinanti che contribuiscono ai cambiamenti climatici e alla perdita della biodiversità. Il cibo immesso nel mercato presenta bassi valori nutritivi e alti valori di tossicità, di conseguenza aumenta il rischio di malattie, intolleranza, allergie, fin dai primi mesi di vita. Tutto ciò, oltre a gravare sull’ambiente, sul Sistema sanitario, ormai allo stremo, grava sostanzialmente sulle tasche dei cittadini che, nell’illusione di risparmiare sul prezzo della spesa quotidiana, non si accorgono di pagare tre volte in più le cose che comprano: una volta per l’acquisto a prezzi stracciati degli alimenti, la seconda per curarsi dalle malattie che gli stessi alimenti hanno generato, la terza per riparare, sottoforma di tasse e contributi vari, i disastri ambientali e l’aumento delle spese sanitarie. Questo sistema di mercato è figlio legittimo del “Sistema Capitalista” e dell’ormai famigerata “finanziarizzazione” dell’economia e i rischi per l’incolumità non solo fisica dell’individuo, ma mentale, sociale, culturale collettiva, sono da considerarsi in relazione a questo modello economico che mette in primo piano gli interessi privati a discapito dei beni comuni e dell’interesse collettivo. Un sistema economico basato sull’aumento della produzione ad ogni costo, non solo non ottiene i risultati che aveva promesso, ma produce effetti collaterali di gravità inaudita, esternalizzando i costi dei danni prodotti sugli Stati e quindi sui cittadini/contribuenti.
2. I costi di un sistema produttivo disastroso
Il Direttore Generale della FAO, Graziano da Silva, a conclu-sione del recente simposio sull’agricoltura, tenutosi a Roma, ha definito “la Rivoluzione Verde” un modello esaurito, incapace di risolvere il problema della fame nel mondo di cui soffrono ancora 815 milioni di persone. Un modello estrattivista che intende il cibo, non come patrimonio dell’umanità, ma come merce, bene di consumo che tende a creare monopoli, senza tenere conto della valenza nutrizionale, culturale e sociale dell’alimentazione.
Qual è allora il costo reale di questo sistema produttivo che non leggiamo sullo scontrino del supermercato?
(Valori FAO) COSTO AMBIENTALE DELLA PRODUZIONE AGRICOLA = $ 1,15 Trilioni, pari al 170% del valore della produzione
COSTO DELLA PRODUZIONE ANIMALE = $ 1,18 Trilioni pari al 134% del valore della produzione.
La questione è quindi “Politica”, visto che il cibo industriale è prodotto a costi elevati grazie alle sovvenzioni pubbliche immesse nei mercati internazionali per mezzo dei “Trattati di libero scambio”. I piccoli agricoltori locali sono così costretti alla fame dall’immissione nei mercati di cibi spazzatura a basso costo.
Cominciamo col dire che i primi 10 soggetti più influenti nel settore del cibo confezionato sono: Nestlé, Kraft/Mondelez, Unilever, PepsiCo, Mars, Danone, Kellogg’s, General Mills, Associated Brtitish Foods e Coca Cola; il loro rendiconto annuale ammonta a più di 450 miliardi di $, rappresentando più del 15% delle vendite al dettaglio mondiali e una fetta di mercato molto più ampia nei settori chiave come caffè, tè, dolci, latticini e acqua. Lo strumento fondamentale di diffusione di questi prodotti è stata, senza dubbio, la nascita e la diffusione dei supermercati già dagli anni 90; basti pensare che nel 1992 le cinque catene più grandi di supermercati negli USA occupavano il 19% del mercato, nel 2005 la percentuale si aggira intorno al 29% . La Wal-Mart, piccolo distributore negli anni 90, oggi è tra i più grandi del mondo con il 6% di vendite al dettaglio a livello mondiale; le 5 più importanti catene di supermercati in Europa supera il 50% delle vendite mondiali. La “Rivoluzio-ne” dei supermercati è stata mossa dagli stessi fattori nelle diverse regioni: l’incremento del reddito e dell’urbanizzazione hanno incrementato la domanda, gli investimenti diretti, la diversificazione dei format per soddisfare meglio le esigenze del consumatore, investimenti domestici competitivi e sistemi di appalti favorevoli per l’abbattimento dei prezzi, hanno incrementato l’offerta. Le ripercussioni di quest’evoluzione si concretizzano in diversi modi: La selezione dei prodotti destinati all’esportazione per assicurare standard qualitativi e sanitari, l’affidamento alle grandi aziende agricole da parte degli enti pubblici delle commesse;
I coltivatori sono responsabili per tutte le attività post- raccolto fino alla distribuzione nei supermercati, appesantendo le loro condizioni economico-finanziarie oltre le fasi del raccolto, diventando così trasportatori, addetti alla logistica, ecc.;
Produrre in una nazione ed esportare in un’altra, accen-tuando il problema della concorrenza e approfittando dello sfruttamento della manodopera a basso costo ed in oltre, per mezzo degli incentivi di Stato, eliminare dal mercato gli agricoltori locali, con la politica del prezzo più basso.
La concentrazione di potere nelle catene agroalimentari a li-vello globale non è casuale ma strutturale e porta a modelli di governance in cui i compratori decidono il prezzo dei prodotti a discapito dei fornitori/produttori e vincolano questi ultimi ad una produzione standard decisa esclusivamente dalle grandi catene multinazionali. Per quanto riguarda poi la produzione di materie prima particolari come caffè, cacao, tè, zucchero di canna, frutti tropicali, il sistema di concentrazione del potere e di tipo neocoloniale che ha sviluppato un modello di produzione basato prima di tutto su economia di scala, stabilendo relazioni di tipo patriarcale tra grandi proprietari e piccoli produttori.
3. Un esempio di concentrazione verticale è la filiera di produzione delle banane.
La filiera di produzione delle banane è il tipico modello di catena gerarchica nel quale le multinazionali hanno integrato verticalmente tutte le operazioni di filiera, dalla produzione (attraverso la proprietà delle piantagioni) alla distribuzione fino al consumatore finale per controllare l’offerta e l’influenza del mercato a valle. Più recentemente, la disponibilità dei servizi di trasporto marittimo di linea, la creazione di norme di qualità tecniche da parte dei supermercati e la liberalizzazione del mercato europeo hanno stimolato i rivenditori a comprare le banane indipendentemente dalle multinazionali. Di conseguenza diversi grandi supermercati hanno iniziato a costruire catene più liberamente controllate, scaricando i costi di gestione dei rischi, controllo qualità e logistica ai loro fornitori. Questo processo ha comportato però nuove configurazioni di mercato nelle quali i produttori di piantagione e i piccoli agricoltori sono più indipendenti, ma sempre vincolati dai supermercati dell’altra estremità della catena. Nei sistemi vincolati di produzione i produttori, soprattutto piccoli dipendono quasi del tutto dai compratori e sono costretti ad accettare le condizioni imposte dal mercato. Questo tipo di modello si riscontra soprattutto nei settori: Frutta fresa tropicale e produzione di olio di palma, dove gli agricoltori medi e piccoli vengono utilizzati come fornitori di scorte cuscinetto dagli esportatori che dominano il mercato e spesso proprietari della piantagione;
Zucchero di canna dove le grandi imprese di trasformazione esternalizzano la produzione da un gran numero di piccoli agricoltori costretti a vendere il loro prodotto il più velocemente possibile a causa del veloce deperimento;
Cotone in Asia dove i piccoli produttori sottomessi da contratto dipendono esclusivamente dai compratori che forniscono i servizi di marketing e gli strumenti di produzione (fertilizzanti e pesticidi);
Prodotti caseari, soprattutto in Europa dove i produttori sono direttamente alle dipendenze delle grandi imprese fortemente concentrate (Nestlè, Lactalis, ……).
4. L’esempio della produzione di zucchero di canna.
Quasi l’83% dello zucchero mondiale viene estratto dalla canna da zucchero, mentre la percentuale rimanente dalla barbabietola. Per molte nazioni del Sud del Mondo, la coltivazione della canna da zucchero rappresenta un’importante fonte di reddito (il 70% delle esportazioni a Cuba, il 40% nel Belize e Fiji) e di occupazione rurale. In molti paesi produttori, la lavorazione e la raffinazione sono concentrate nelle mani di poche grandi compagnie private le cui esportazioni sono controllate da una sola “desk company”. Da una parte le aziende private controllano la catena in modo verticale, dall’altra normative protezioniste nei mercati delle nazioni e regioni principali (USA, UE, Brasile, India, Cina) vengono applicate per influenzare i prezzi di mercato. La lavorazione dello zucchero e la raffinazione sono processi ad alta intensità di capitale e quindi i maggiori commercianti dello zucchero se ne accaparrano la costruzione e la proprietà. Pertanto gli zuccherifici, che si trovano generalmente vicino alle aree di coltivazione, controllano l’intero mercato della produzione di zucchero di canna che, nelle nazioni dove la canna da zucchero è coltivata da piccoli agricoltori, né risente l’intera economia rurale com-pletamente controllata dalla multinazionale. L’offerta di zucchero viene regolata attraverso accordi contrattuali tra i piccoli agricoltori e lo zuccherificio che fornisce loro credito e tutti gli strumenti economico-finanziari necessari alla produzione. Di conseguenza i piccoli coltivatori di canna da zucchero sono completamente assoggettati allo zuccherificio che diventa così l’unico canale di vendita del loro prodotto e che fornisce gli input agricoli necessari ( pesticidi). La velocità di vendita cui è soggetta tale merce deperibile è l’arma finale di ricatto per questi piccoli agricoltori che non hanno alternative.
5. La filiera del caffè
Nelle filiere agricole quindi il modello di governance viene combinato con l’approvvigionamento vincolato con i piccoli a-gricoltori per assicurare che i prezzi delle risorse (materia prima) siano i più bassi del mercato. L’esempio principale di questo modello lo troviamo nell’industria del caffè, ma anche nella produzione del cacao e nel settore tessile. Per quanto riguarda il caffè i produttori sono circa 25 milioni principalmente proprietari di piccole piantagioni, i consumatori sono circa 500 milioni di persone in tutto il mondo. Solo 5 aziende gestiscono il 45% delle torrefazioni: Nestlè, Kraft, Mondelez, Sara Lee, Procter & Gamble e Tchibo; mentre solo 3 aziende hanno in mano 50% del commercio mondiale di caffè crudo: Neumann Gruppe, ECOM e Volcafè (controllata da ED&F Man). Il mercato del caffè è praticamente controllato dai cartelli formati da queste multinazionali e i “commercianti” internazionali che con la loro politica dei prezzi tengono i scacco i piccoli produt-tori senza potere di negoziazione. Pertanto l’andamento dei prezzi finali del caffè è esclusivamente determinato dagli accordi tra Torrefazioni e commercianti che ne beneficiano per la maggior parte lasciando agli agricoltori un quota minima soggetta sempre al ribasso. Per cui si è spesso assistito al paradosso dell’aumento del prezzo del caffè per il consumatore finale a cui corrispondeva una diminuzione del valore della materia prima per i produttori. Tale modello determina, più che in altri settori, un condizionamento sempre più vincolante dei produttori ridotti spesso allo stremo sia dal punto di vista finanziario che sociale. L’unica possibilità che hanno i piccoli agricoltori per svincolarsi da queste catene che condizionano la loro stessa esistenza in vita, è quella dell’organizzazione in cooperativa.
6. Il modello “fornitori chiavi in mano”
L’ultima frontiera, oggi, in cui si è evoluto il controllo della filiera è il modello modulare dei “fornitori chiavi in mano”. Queste catene, più complesse, sono organizzate attraverso un insieme di produttori “chiavi in mano” di componenti, che controllano la loro specifica filiera, ognuna strutturata secondo il modello di produzione del caffè, cioè con gli agricoltori intrappolati nelle maglie del “massimo profitto” a loro discapito. I fornitori “chiavi in mano” creano prodotti secondo le esigenze del cliente, coprendo i costi della tecnologia necessaria alla lavorazione, in modo tale che le informazioni richieste sono altamente sofisticate e supportate da normative sempre più adattate ai processi di trasformazione e al prodotto finale. L’inizio della catena, gli agricoltori rimangono intrappolati in modelli vincolati con i commercianti e i trasformatori, senza nessuna capacità di influenzare i successivi tratti delle catene componenti la filiera, anzi ne sono completamente tagliati fuori. La maggior parte dei prodotti alimentari lavorati sono prodotti attraverso catene modulari a capo delle quali si trovano le imprese di marca mentre dall’altra estremità, i produttori agricoli: alimenti confezionati, cibi pronti, piatti congelati, ecc.. Questo fenomeno è altrettanto diffuso nell’industria della moda.
6.1. Il caso “Cioccolato”
Il cioccolato viene prodotto attraverso l’assemblaggio di pasta di cacao, burro di cacao, zucchero e lecitina di soia, con l’eventuale aggiunta di vaniglia a seconda delle ricette. Alla fine della catena del cioccolato c’è una concentrazione in crescita, un monopolio formato dalle più grandi aziende a livello globale come Mars, Kraft/Mondelez , Nestler, Ferrero, Hershey che rappresentano più del 50% del mercato dolciario mondiale. Poi c’è la catena di produzione del così detto “cioccolato di copertura”, cioccolato industriale, non veicolato al consumo finale e qui “il cartello” (Mars, Kraft, Nestler) rappresenta il 52% della produzione mondiale, con un 48% del mercato mondiale solo per le aziende manifatturiere, solo 4 compagnie: Barry Callebaut, Cargill, Bloomer e ADM, di cui Cargill e Barry Callebaut rappresentano il 45% del mercato della macinazione del cacao. Per quanto riguarda invece la produzione agricola del cacao, il 90% è coltivato da 5,5 milioni di piccoli coltivatori, principalmente in Africa Occidentale ( Costa d’Avorio, e Ghana) che vendono il loro prodotto ai grandi commercianti di commodity. Il valore di mercato lasciato ai produttori si aggira oggi tra 4% e il 6% del valore globale. Cioè quando si acquista una tavoletta di cioccolato o una scatola di cioccolatini al supermercato, per esempio della Nestler, o della Ferrero, ecc. solo il 5% circa del prezzo pagato va a finire al contadino che ha coltivato le bacche di cacao, il resto va a finire nella mani delle grosse concentrazioni di mercato globale.
7. Le condizioni di vita insostenibili degli agricoltori
Quando gli agricoltori tentano di organizzarsi autonomamente, per esempio in cooperative, associazioni, sindacati)le concentrazioni di potere vengono utilizzate per minare o impedire le loro iniziative. La concentrazione del potere nelle filiere agricole, la liberalizzazione e finanziarizzazione del mercato mondile mette in ginocchio i piccoli agricoltori, facendo convergere sempre più nelle mani delle aziende più potenti i vantaggi destinati ai soggetti della filiera. I primi a pagare lo scotto della globalizzazione dei mercati sono proprio i piccoli agricoltori, tanto che le loro condizioni di vita si sono deteriorate incredibilmente nel corso degli ultimi 20 anni. Un esempio sono appunto i settori del caffè e del cacao. Il caffè in particolare è una delle più importanti commodity al mondo ma è anche il principale mezzo di sostentamento di milioni di famiglie di agricoltori nei paesi in via di sviluppo, circa 25 milioni di piccoli coltivatori che hanno come unica risorsa il caffè che coltivano. Fino al 1989 il commercio mondiale del caffè era regolato da accordi internazionali di settore che calmieravano in qualche modo i prezzi. La rottura degli accordi sul caffè del 1989 ha aperto la strada alla liberalizzazione, determinando un abbassamento sostanziale, sotto i costi di produzione, del prezzo della materia prima. La stessa cosa è avvenuta con il cacao dove sono circa 14 milioni gli agricoltori che dipendono essenzialmente da questa produzione per la loro sussistenza. La liberalizzazione dei prezzi ha portato alla privatizzazione quasi totale degli appezzamenti coltivati. In molte zone rurali, milioni di famiglie non hanno accesso a infrastrutture, strutture sanitarie, educazione e istruzione, acqua potabile ecc. proprio a causa della liberalizzazione dei prezzi del cacao e del caffè. Bisogna inoltre dire che questa liberalizzazione, se pur comportando da una disastri per i piccoli produttori, costretti a lavorare per un salario da fame, se non addirittura in condizioni di semi schiavitù, dall’altra non ha ottenuto un abbassamento dei prezzi alla fine della filiera: il consumatore finale ha visto sempre aumentare il prezzo del caffè.
8. Il lavoro minorile
Conseguenza delle condizioni di vita degli agricoltori e delle loro famiglie, depauperati della loro terra e dei propri strumenti di lavoro, è il lavoro minorile. Il bisogno di guadagnare per sopravvivere, la mancanza di strutture sanitarie, sociali ed educative, hanno costretto le famiglie a far lavorare nei campi anche i loro figli. Nel 2002, il Dipartimento di Sato USA sui diritti umani, in Costa d’Avorio, riscontrò tra i cinquemila e i diecimila bambini trafficati all’interno del paese per lavorare a tempo pieno nel settore del cacao. Riscontrando inoltre che 109.000 bambini-lavoratori venivano impiegati in aziende familiari di cui il 70% in condizioni di pericolo di vita. Il Protocollo di Harkin-Engel, detta anche Protocollo del cacao del 2007, fu il primo tentativo di eliminare le pegiori forme di lavoro minorile nell’industria del cacao. La scadenza inziale del proprocollo del 2005, non fu rispettata e ne 2008 furono ridiscussi i parametri per la certificazione delle aziende. Ma dal monitoraggio del Forum Internazionale per i Diritti del Lavoro sull’applicazione dle protocollo, usci fuori che non vi era alcuna certezza che le aziende certificate ap-plicassero i regolamenti previsti dal Protocollo. Ad oggi, in Africa occidentale, il lavoro minorile deve essere ancora preso in considerazione. Anche se i compratori di cacaco si sono dichiarati disposti a favorire un aumento del reddito degli agricoltori incrmenetando la rendita, in realtà quetso non ha fatto altro che aumentare ulteriormente i profitti delle grandi multinazionali, lasciando pressoché inalterato il reddito degli agricoltori. Le mansioni assegnate ai bambini che lavorano nelle coltivazioni di canna da zucchero vanno dalla diserbatura alla fertilizzazione del raccolto, espone doli ad un gran numero di rischi per la loro incolumità per la loro crescita in salute. Per quanto i genitori cercano di proteggerli in qualche modo, i rischi sono tanti; la lavorazione della canna da zucchero è estremamente pericolosa, va dall’uso di diserbanti alla falciatura col machete, tutte operazioni che bambini in età scolare fanno a loro rischio e pericolo. Punire i genitori per il lavoro minorile significherebbe punirli per la loro povertà.
9. Il degrado ambientale
La concentrazione di potere in poche mani e la conseguente pressione sui prezzi da parte dei compratori a tutti gli stadi della filiera, stanno amplificando l’uso di sistemi agricoli più intensificati e meccanizzati nella corsa verso il massimo profitto. Ciò comporta un aumento delle criticità nei confronti della sostenibilità ambientale di molte regioni del mondo. La crescente scarsità di terra e acqua e le perdite sul raccolto sta mettendo a dura prova l’agricoltura mondiale: Circa il 25% delle terre emerse sono coltivate ( quasi tutti i terreni adatti disponibili);
L’agricoltura e l’industria alimentare si avvalgono del 70% del consumo di acqua mondiale;
L’agricoltura e l’industria alimentare sono responsabili del più del 30% delle emissioni di CO2;
Pertanto, a breve, continuando con queste ricette, risulterà impossibile far fronte alla pressante domanda di cibo e prodotti alimentari. Nonostante esistano sistemi agricoli tradizionali, in particolare sistemi agrosilvopastorali, con un impatto ambientale relativamente basso, sono sempre più incentivati sistemi di produzione intensivo ad alto spreco di risorse. Inoltre la mancanza di sostenibilità economica della piccola agricoltura, riduce sempre più gli spazi di manovra nell’ambito della sostenibilità ambientale: deforestazione, utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi, insieme alla loro incentivazione economica da parte degli Stati nazionali. Ne è un esempio il caso delle banane e dello zucchero di canna. Questi prodotti sono coltivati, proprio per la rincorsa al maggior reddito, in monocultura estensiva in paesi tropicali, durante tutto il processo di produzione vengono un numero e una quantità esorbitante di agenti chimici, tra cui fungicidi, insetticidi, diserbanti, destinati a difendere le banane contro malattie e insetti. A questo si aggiunge l’uso massiccio di acqua. Anche nei sistemi agricoli che utilizzano procedimenti di recupero dell’acqua piovana, condizionano comunque il corso dei fiumi, riducendo notevolmente il deflusso dei bacini idrografici di conseguenza erodendo le falde acquifere sotterranee. Altri considerevoli problemi ambientali associati con le filiere agricole moderne, sono le perdite alimentari e lo spreco che si verificano lungo tutta la catena, dalla produzione primaria al consumatore finale. Nei paesi a reddito medio-alto il cibo è principalmente sprecato al momento in cui viene consumato, dai 95 ai 115 Kg procapite nei paesi del nord (Europa, Nord America). C’è un legame intrinseco tra lo spreco di cibo da una parte, e lo sviluppo del consumo di massa e la standardizzazione dei prodotti in un crescente numero di paesi dall’altra. Entrambe le tendenze sono accelerate dai grandi compratori delle filiere agricole, in particolare i supermercati, le aziende manifatturiere, le aziende di servizi finanziari.
10. Le alternative a questo sistema perverso: l’esempio del Commercio Equo e Solidale
Nell’assenza di iniziative legislative di regolamentazione pubblica, le parti coinvolte nelle filiere agricole hanno intrapreso delle iniziative private per limitare il potere dei compratori e sollevare le sorti dei piccoli agricoltori e i lavoratori. Tra gli altri il Commercio Equo e Solidale ha dimostrato che grandi iniziative possono essere messe in pratica su larga scala dai soggetti economici della filiera agricola per contrastare il potere economico-finanziario delle multinazionali e permettere ai piccoli agricoltori di avere una vita dignitosa per se e per la propria famiglia e di sopperire alla mancanza di quei servizi essenziali per la vita dei cittadini.
L’applicazione di un prezzo minimo agisce da rete di sicurezza per i produttori, calmierando i prezzi imposti dai compratori, l’analisi dettagliata dei costi di produzione sostenibile, stabilizza il reddito delle famiglie, questi due principi combinati al metodo di contrattazione a lungo termine comprensivo di prefinanziamenti, permette ai piccoli produttori di pianificare il futuro sia della produzione, sia della vita di tutta la comunità. Il margine Fair Trade Premium, deciso collettivamente tra produttori e lavoratori, permette di sviluppare attività redditizie, potenziando la loro capacita a risparmiare, migliorando le condizioni di vita e riducendo il rischio di povertà nonché, aumentando la capacità di investimento, aumentano produttività e infrastrutture pubbliche. Attraverso l’organizzazione democratica delle strutture aziendali, i produttori e lavoratori acquisiscono capacità imprenditoriali e di mantenimento dei propri diritti, sviluppare strategie a lungo termine per assicurare condizioni di vita migliori per la loro comunità e strumenti di protezione dell’ambiente sempre più efficaci. All’altro capo della filiera, il movimento del Commercio Equo e Solidale ha stimolato le aspettative etiche dei consumatori, incoraggiandoli a interessarsi all’origine dei prodotti ed ai processi di lavorazione e alle condizioni sociali di chi li produce, favorendo una forte aspettativa di trasparenza nella filiera agricola.
10.1. Le filiere corte e i mercati del contadino
In tutto il mondo, i piccoli agricoltori stanno attuando un agricoltura ecologica basta sulla biodiversità, rigenerando suolo e conservando semi, fornendo così cibo sano e nutriente alle comunità, direttamente senza intermediari. mercati del contadino in Italia, conosciuti anche col nome di farmer’s market, possono essere descritti come un momento enogastronomico e sociale dove i prodotti agroalimentari delle aziende agricole vengono proposti, tramite la vendita diretta, dal produttore al consumatore. I mercati del contadino, tramite questa loro formula commerciale tanto moderna, quanto antica, ci regalano un’opportunità eccezionale per promuovere il patrimonio enogastronomico del nostro territorio e per tenere in vita le tradizioni contadine del nostro paese.
Gli obiettivi più importanti perseguiti dalla filiera corta: un guadagno equo per i produttori agricoli;
diffusione della conoscenza dei prodotti tipici e tradi-zionali italiani, della loro stagionalità e della loro genuinità;
garanzie più alte sulla sicurezza alimentare, sulla fre-schezza e sulla qualità dei prodotti agricoli.
Fra tutti gli aspetti positivi che la filiera corta porta con se, a noi fa piacere evidenziare il rispetto per l’ambiente.
La filiera corta consente di ridurre l’inquinamento in quanto elimina la maggior parte dei trasporti, consentendo una sensibile diminuzione del traffico ed un grande risparmio energetico. Uno dei migliori esempi di filiera corta è rappresentato dai mercati del contadino.
I Vantaggi e le potenzialità offerti dai mercati del contadino: Prodotti genuini e freschissimi a prezzi più economici.
E’ un metodo utile per fare la spesa a kilometro 0, con rispetto per l’ambiente e a sostegno delle aziende agricole locali.
Vendita diretta fra il produttore e il consumatore e privilegio della filiera corta.
Valorizzazione dei piccoli produttori.
Riscoperta del proprio territorio grazie alla vendita su scala provinciale e regionale.
Possibilità anche per i micro produttori, che coltivano in genere per l’autoconsumo ma hanno a volte delle eccedenze, come gli agriturismi.
Sviluppo di momenti di aggregazione sociale, poiché fare la spesa non è più un solo atto pratico, ma diviene un momento di piacere e di riscoperta conviviale.
Riscoperta e rispetto della stagionalità dei prodotti.
11. Conclusioni .
Per tutti questi motivi, le scelte personali nel campo della buona alimentazione e del fare la spesa giusta, contano molto, forse potrebbero essere determinanti. Sono sicuramente scelte difficili ostacolate dalla standardizzazione del cibo, il marketing aggressivo, la disinformazione, la scarsa trasparenza della filiera, la disponibilità dell’offerta, l’accessibilità, la politica dei prezzi, ecc…… Ma per questo esistono i Governi degli Stati che sono responsabili dei loro cittadini, del loro benessere e custodi dei loro diritti e possono essere cambiati se non fanno il proprio lavoro,a meno che, anche la democrazia non sia stata messa sul mercato e venduta al miglior offerente.
In ogni caso, quando tutto viene a mancare, quel che resiste ancora è la responsabilità personale. Di fronte ad un modello che sta devastando il pianeta e che ha dichiarato guerra al vivente, non rimane che ribellarsi e opporre resistenza per sovvertire l’ordine costituito dagli interessi del profitto. La resistenza alimentare è la nostra disobbedienza civile che parte dal momento in cui facciamo la spesa, consapevoli del fatto che la salute delle persone e la salute del pianeta sono la stessa cosa.
Nettuno, 04/06/2019 Fiorenzo Testa
Associazione Acquadolce
BIBLIOGRAFIA AA. VV. “ Di chi è il potere? Squilibri e concentrazione di potere nelle filiere agricole e commerciali” Ed. Equogarantito;
AA. VV. “Primo rapporto nazionale sull’altra economia in Italia” a cura di OBI ONE Coop.;
AA. VV. “Manifesto Food for Health (Cibo per la salute) Ed. TERRA NUOVA
Vandana Shiva “Mangiare è un atto politico” dalla rivista TERRA NUOVA numero di giugno 2019
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