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la via del tè II puntata: la cerimonia del tè

5 giugno 2007

Indice II Puntata

1- La civiltà del tè in Giappone

2- La Cerimonia del Tè

3- La filosofia del tè: il Teismo

Appendice: che cos’è il teatro Nō

LA CIVILTA’ DEL TE’ IN GIAPPONE

In Giappone il tè fu introdotto intorno al 593 d.C.. Fu l’influenza della cultura cinese, tra l’ottavo e il nono secolo, che determinò un aumento dell’importazione del tè, sempre per opera dei monaci buddisti depositari della cultura del tè, questa bevanda si diffuse nelle corti giapponesi ma non ebbe quella popolarità di cui godeva in Cina. Come i monasteri cristiani del medioevo europeo sottraevano alla rozza dominazione gotica e conservavano gelosamente (anche troppo) l’intero “corpus” della cultura, della filosofia e della scienza occidentali, così i monaci orientali conservavano e tramandavano la civiltà di quella bevanda che avvicinava l’uomo al soprannaturale, alla conoscenza di se in un rapporto mistico e armonioso con la natura di cui l’uomo stesso è parte. Lo “scambio delle informazioni” sul tè avvenne in un primo tempo tra monaci e circoli di corte, tant’è vero che, intorno all’anno 700 d.C., si racconta che l’imperatore giapponese Shomu era solito invitare 100 monaci nel suo palazzo per prendere il tè. La prima pianticella di camelia sinensis fu importata dal monaco Saicho, da allora oltre alla bevanda, nella vita di corte, si diffuse l’arte di creare i giardini del tè. Il tipico tè verde, il mancha, a quei tempi era ancora sconosciuto, è nel periodo Kamakura (1192-1333) (1) che i giapponesi conobbero la preparazione cinese delle foglie del tè ad opera del monaco Eisai (1141-1215) (2), fondatore della setta Rinzai (3) del buddismo Zen, secondo cui le foglie andavano raccolte di primo mattino, prima del formarsi della rugiada, bisognava poi tostarle a fuoco lento in modo da non bruciarle e poi sistemarle in un vaso con un coperchio di foglie di bambù. Erano i primi passi della formazione di una complessa cerimonia che avrebbe esercitato una profonda influenza nella vita culturale dei giapponesi, viva ancora oggi. Eisai inoltre scrisse una poderosa opera in due tomi intitolata “Note sugli effetti curativi del tè”, in cui veniva dimostrato che, non solo la bevanda, ma la pianta stessa racchiudeva in se il segreto di una lunga vita e ne raccomandava un maggior uso. La dimostrazione pratica dei precetti di Eisai ebbe una rapida diffusione quando inviò una copia della sua opera ed una certa quantità di tè al generale supremo del Giappone, lo shogun Sanetomo per aiutarlo a curare una malattia di stomaco dovuta all’assunzione di cibo avariato. Sanetomo guarì e da quel momento sancì: “tè per tutti”, dando grande impulso alla diffusione e consumo di tè in tutta l’isola.
Fu l’aspetto fortemente mistico dell’uso del tè a determinarne il successo a causa, come sempre, della sua capacità euforizzante cosi come altre sostanze allucinogene hanno avuto ed hanno tuttora in altre regioni del mondo, la stessa capacità di far entrare “l’iniziato” a contatto con il “soprannaturale”. In fatti, a questo scopo, le foglie del tè polverizzate subito dopo la raccolta, venivano bevute in sospensione e non in infusione, cioè i monaci buddisti prendevano una bevanda composta da polvere di tè mescolata con acqua in una certa quantità, questo era il “macha” (te verde polverizzato), seguendo una cerimonia rispettosa di regole ben precise: “La Cerimonia del Tè”. Sotto lo shogun Ashimara Yoshimasa (4) nel quindicesimo secolo i Maestri giapponesi del tè, oltre ad essere i custodi del cerimoniale esercitavano una forte influenza sull’arte e la cultura dell’epoca, la quale vide il compimento della secolarizzazione del rituale del tè con il teismo.

LA CERIMONIA DEL TE’

Cha no yu conosciuta anche come Chād o Sād cioè la via del tè, letteralmente acqua calda per il, è una delle arti tradizionali più note, codificata in maniera definitiva alla fine del ‘500 da Sen no Rikyū, maestro del tè di Oda Nobunaka e successivamente di Toyotomi Hideyoshi. Può essere svolta secondo stili diversi ed in forme diverse. A seconda delle stagioni cambia la collocazione del bollitore (kama): in autunno e inverno posto in una buca di forma quadrata (ro), ricavata in uno dei tatami che formano il pavimento, in primavera ed estate in un braciere (furo) appoggiato sul tatami. La forma più complessa e lunga (chaji) consiste in un pasto in stile Kaiseki, nel servizio di tè denso (koicha) e in quello di tè leggero (usucha). La cerimonia del tè è qualcosa che va molto al di là della semplice preparazione di una bevanda. È forse l’espressione più pura dell’estetica zen, tanto che un adagio giapponese dice: cha zen ichimi cioè “tè e zen un unico sapore”.
Lo svolgimento della cerimonia
La cerimonia del tè comprende di solito una prima parte nel corso della quale viene servito un pasto leggero di sette portate (kaiseki), un breve intervallo, il nakadachi, il goza iri che è la parte principale della cerimonia e durante la quale viene servito un tè denso (koicha), e l’usucha, durante il quale viene servito un tè meno denso del precedente. Tutta la cerimonia completa dura circa quattro ore.
Gli invitati, in numero di cinque, si riuniscono nella sala d’attesa. L’ospite li raggiunge e li conduce per un sentiero attraverso il giardino fino alla “sala del tè”. Lungo il sentiero vi è una conca in pietra piena d’acqua, dove gli invitati si lavano le mani e si sciacquano la bocca. L’entrata nella sala è così piccola che essi devono superarla in ginocchio, in un atteggiamento quasi di umiltà. Nell’entrare nella stanza, che è dotata di un focolare fisso o di un braciere portatile per il bollitore, ciascun invitato si inginocchia davanti al tokonoma, una piccola nicchia dove è appeso uno scritto eseguito da un calligrafo esperto Shodō ed una piccola composizione di un unico fiore detta chebana(“fiori per il tè”), e fa un rispettoso inchino. Poi, tenendo il proprio ventaglio pieghevole davanti a sé, egli ammira il kakejiku appeso nel tokonoma; quindi, rivolge nello stesso modo il proprio sguardo verso il focolare o il braciere. Non appena tutti gli invitati hanno terminato di ammirare tutto ciò, prendono posto, a cominciare dall’invitato più importante che prende posto vicino all’ospite. Dopo lo scambio dei convenevoli, viene servito il pranzo con dei dolci per terminare il pasto leggero.
Dietro suggerimento del loro ospite, gli invitati si ritirano e vanno ad aspettare sulla panchina che si trova fuori, nel giardino interno, vicino alla sala del tè.
L’ospite fa suonare il gong sospeso vicino alla sala per indicare che la cerimonia principale sta per iniziare. L’uso vuole che egli colpisca il gong da cinque a sette volte. Gli invitati si alzano in piedi ed ascoltano attentamente; poi, dopo aver ripetuto il rito della purificazione alla vasca piena d’acqua, entrano di nuovo nella stanza. I pannelli di bambù, sospesi all’esterno davanti alle finestre vengono ritirati da un assistente al fine di illuminare l’ambiente. Il kakejiku è sparito e nel tokonoma è stato sistemato un vaso con un ikebana(chabana). Il recipiente per l’acqua fresca e la scatola in ceramica del tè sono al loro posto prima che l’ospite entri, portando la ciotola per il tè contenente il frullino di bambù e il mestolo per il tè. Gli invitati guardano e ammirano i fiori e il bollitore come avevano fatto all’inizio della cerimonia. L’ospite si ritira nella stanza per la preparazione e ritorna ben presto con il recipiente per l’acqua, il mestolo, e un appoggio per il bollitore o per il mestolo. Asciuga poi la scatola del tè e il mestolo con un telo speciale, chiamato fukusa, e lava il frullino nella ciotola del tè contenente acqua calda presa dal bollitore con il mestolo. Vuota quindi la ciotola, versando l’acqua nel recipiente vuoto che aveva portato in precedenza e l’asciuga con un chakin, un pezzo di tela di lino. Quindi prende la scatola del tè e con l’apposito cucchiaio prende del matcha, tre cucchiai pieni per invitato; poi, prende un mestolo di acqua calda dal bollitore e ne versa circa un terzo nella ciotola e il resto di nuovo nel bollitore. Infine, rimescola con il frullino fino a che non si addensa, diventando come un puré di piselli sia per la consistenza sia per il colore. Il tè così preparato si chiama koicha. Il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante di tè che hanno da venti a settanta anni o anche più. L’ospite depone la ciotola al suo posto, presso il focolare o il braciere, e l’invitato più importante si avvicina in ginocchio per prenderla; si china, quindi, davanti agli altri invitati e mette la ciotola sul palmo della sua mano sinistra, sorreggendone un lato con la mano destra. Dopo averne bevuto un sorso, ne loda l’aroma, quindi beve ancora uno o due sorsi. Pulisce il punto della tazza da cui ha bevuto con il kaishi e passa la ciotola al secondo invitato, che beve e asciuga la tazza esattamente nello stesso modo. La ciotola viene così passata al terzo, al quarto e quinto invitato perché tutti possano gustare il tè. Quando l’ultimo invitato ha finito, porge la ciotola al primo, che a sua volta la restituisce all’ospite.
L’usucha differisce dal koicha nel fatto che il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante che non hanno più di tre o cinque anni. La bevanda che ne deriva è verde e schiumosa. Le regole osservate nel corso di questa cerimonia sono simili a quelle seguite durante quella del koicha, con le seguenti differenze essenziali: il tè viene preparato individualmente per ciascun invitato con due cucchiai o due cucchiai e mezzo di matcha; ogni invitato è tenuto a bere interamente la sua parte; l’invitato pulisce la parte della tazza che ha toccato con le labbra con le dita della mano destra e poi si asciuga le dita con il kaishi. Dopo aver trasportato gli utensili fuori dalla stanza, l’ospite in silenzio si inchina davanti agli invitati, indicando che la cerimonia è finita. Gli invitati lasciano il sukiya accompagnati dal loro ospite.

LA FILOSOFIA DEL TE’: IL TEISMO

La Dimora del Vuoto
La stanza del tè è il luogo fisico dove si svolge la cerimonia ma è anche luogo mentale. In essa sono stati trasfusi gli ideali dell’estetica zen. Ai concetti precedenti di yūgen e di sabi, Rikyu aggiunse quello di wabi. Se lo yūgen era “l’incanto sottile”, impossibile da trasmettere con le parole, caro agli autori del Nō, soprattutto Zeami (Vedi appendice) e il sabi la patina sottile del tempo che rende gli oggetti affascinanti e ispiratori di tranquillità e armonia, il wabi di Rikyu aggiunse qualcosa di eversivo: la povertà ricercata, il rifiuto assoluto dell’ostentazione. Rikyu amava lo stile semplice, cioè vedeva la stanza del tè come dimora della fantasia o dimora del vuoto. Spogliata da ogni possibile orpello, con pareti grezze e praticamente priva di alcun contenuto che non fosse di pensiero. I personaggi che si muovono in essa sono usciti temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni per contemplare brevemente il vuoto. Il concetto di mu-shin, cioè letteralmente “non-mente”, quindi il dimenticare la razionalità per giungere ad un approccio totalizzante con le cose e le persone, è rappresentato perfettamente dallo spazio racchiuso nella stanza del tè. Al vuoto materiale deve corrispondere il vuoto mentale. Nella stanza tutti dovevano entrare disarmati e tutti erano uguali, tutti si dovevano inginocchiare e tutti dovevano "subire" le stesse regole. È chiaro quale fosse il potere destabilizzante di questi concetti e così Rikyu fu costretto al suicidio in quanto un potere che viveva, come sempre, di ostentazione e di forme vuote, si sentiva minacciato dalla forza silenziosa del maestro.
Ceramiche
Il principio del wabi di Rikyu sconvolse anche l’arte della ceramica. Le ceramiche finissime di origine cinese furono scalzate rapidamente da quelle di apparenza rozza che incarnavano l’ideale estetico di semplicità e povertà che il maestro intendeva affermare. Tutto iniziò quando ad un certo Chōjir, operaio coreano addetto alla produzione di tegole, Rikyu chiese di realizzare una ciotola senza usare il tornio né la sovrapposizione a spirale di un cordone di materiale ma semplicemente modellando la forma concava partendo da un pezzo di argilla. Chōjirō eseguì la commissione e il risultato fu talmente straordinario che Rikyu stesso giudicò la tazza perfetta sia dal punto di vista estetico, poiché l’aspetto rozzo rispondeva a quell’esigenza di austerità che si prefiggeva ma anche da un punto di vista pratico, in quanto la tazza bassa e larga aveva una stabilità ideale ed era quindi adattissima per l’utilizzo sul tatami senza pericolo che i numerosi spostamenti cui era soggetta durante la cerimonia ne causassero il ribaltamento. Anche lo shogun Toyotomi fu altrettanto entusiasta e conferì al vasaio l’autorizzazione a fregiarsi, con tutti i suoi discendenti, del sigillo Raku. Questa parola significa "comodo", "piacevole" e da allora la famiglia assunse questo nome. Ancora oggi l’ultimo discendente dei Raku, Kichizaemon, produce, come i suoi antenati, tazze di grande bellezza. Ovviamente anche altri si cimentarono in questo tipo di produzione e così nacquero altri capolavori sempre allineati con i principi estetici dello zen. Fra i più noti quelli di stile Mino, Seto, Shino, Bizen. Particolarissime le tazze con smalti color crema e soprattutto quelle con smalto nero. Un discepolo di Rikyu, Furuta Oribe dette origine a una serie di pezzi straordinari per creatività e colorazione appunto noti da allora come stile Oribe. Spesso i vasai lasciavano colature di smalto o zone non coperte, imperfezioni, bolle, insomma l’ideale estetico del wabi si diffuse sempre più. Malgrado le intenzioni di Rikyu, le ceramiche che dovevano esprimere il massimo dell’austerità e della povertà raggiunsero valori elevatissimi ed erano assai ricercate. Si usava persino premiare i combattenti più valorosi donando loro pezzi particolarmente pregiati o di maestri celebri. Ora molte di queste opere sono conservate nei musei e hanno valori incalcolabili. Ma anche le opere di maestri viventi o del recente passato, eseguite con le tecniche immutate dei tempi di Rikyu, raggiungono quotazioni notevoli.

Utensili e ambientazione
· Chaire (Recipiente per il tè da usare per il koicha)
· Chakin (Salvietta per pulire la tazza)
· Chasen (Frullino di bambù)
· Chashaku (Cucchiaino di bambù)
· Chashitsu (Stanza del tè)
· Chawan (Tazza)
· Fukusa (Fazzoletto di seta)
· Fukusa-basami (Astuccio in cui ogni ospite ripone il necessario (kaishi, kashi-yōji ecc.)
· Furto (Braciere appoggiato sul tatami, in uso da maggio a ottobre)
· Futa oki (Appoggio per lo shaku)
· Gotoku (Treppiede di ferro su cui poggia la kama all’interno del ro)
· Hishaku (Mestolo di bambù)
· Kashi-yōji (Piccolo strumento di metallo per tagliare i dolci)
· Kaishi (Fazzoletti di carta)
· Kama (Bollitore per l’acqua)
· Kensui (Recipiente per l’acqua di lavaggio)
· Kobukusa (Piccolo fazzoletto su cui appoggiare la chawan)
· Kuromoji (Piccolo strumento di legno, a punta, con cui ci si serve)
· Mizusashi (Recipiente per l’acqua)
· Natsume (Recipiente laccato per il tè da usare per l’usucha)
· Ro (Buca quadrata in cui si pone la kama, in uso da novembre ad aprile)
· Shifuku (Sacchetto di broccato entro cui si ripone il chaire)
· Shōmen (Punto della parte esterna della chawan che fa da riferimento per orientarla)
· Tatami (Stuoie che compongono il pavimento)

La cerimonia del tè: una celebrazione dell’armonia della natura
La diffusione del tè è universale, ma in nessun altro luogo al mondo questa bevanda ha fornito un apporto così sostanziale alla cultura come in Giappone, dove l’atto di preparare e bere il tè ha acquisito un alto significato estetico, artistico e filosofico. All’inizio del XIII secolo, il monaco Eizon (1201-90) viaggiò per il Giappone spiegando le proprietà depurative del tè. Ciò diffuse molto la bevanda.
Ikkyuu (1394-1481), una delle figure fondamentali del buddismo, diffuse il tè anche al di fuori della pratica meditativa. Dai monaci zen, l’usanza di bere tè si diffuse ai samurai, che erano allora la classe dominante. Il tè, che prima era apprezzato per le sue qualità medicinali, diventò una bevanda per persone raffinate da gustare per il suo aroma e gusto.
Così nacque, a partire dal XIV secolo, il toucha, un gioco di società. Dieci tazze di tè venivano preparate con quattro diverse qualità di tè. Gli ospiti dovevano indovinare la provenienza di ogni tazza, con una penitenza per il perdente. Il tocha si trasformò progressivamente in una riunione più seria. Lo scopo divenne quindi quello di godere l’atmosfera solenne in cui i partecipanti gustavano il tè mentre apprezzavano opere d’arte e oggetti artigianali cinesi esposti in uno studio (shoin). Il tè era diventato una bevanda per socializzare, un primo passo verso l’attuale cerimonia del tè.
I samurai, già abituati a declamare poesia in stile renga, accolsero di buon grado il tè e il suo rituale, trasmettendovi austerità, sentimento espresso nella frase "karekajikete samukare", che mostra la bellezza del sole che sorge durante un freddo mattino d’inverno su una landa desolata. Verso la fine del XV secolo un discepolo di Ikkyuu, Murata Shukou (1422-1502), divenne maestro del tè sotto lo shogun Ashikaga Yoshimasa (1436-90). Egli propose un altro tipo di cerimonia, più tardi chiamata wabicha, che si basava maggiormente sulla sensibilità giapponese alimentata dallo spirito del buddismo zen, il cui fine è, in poche parole, la purificazione dell’anima nell’unione con la natura. Ceramiche e utensili in stile cinese vennero sostituiti da altri di produzione giapponese e con uno stile più rustico e imperfetto. E’ il secondo passo verso la cerimonia del tè. Intanto, la classe dei mercanti assumeva maggiore importanza. Nella città commerciale di Sakai, vicino a Osaka, viveva un venditore di armi Take no Jouou (1502-55), che poteva vantare una collezione di splendidi oggetti per la cerimonia del tè da far impallidire molti maestri, ma che aveva mantenuto intatto lo spirito del wabicha trasmessogli dalla poesia renga. Egli pensò per primo di costruire una stanza per il tè.
Fu durante il periodo Momoyama, nella seconda metà del XVI secolo, che un allievo di Jouou anch’egli nativo di Sakai, Sen no Soeki detto Rikyuu (1522-91), finalmente diede alla cerimonia del tè la forma attuale, quella di una vera forma d’arte, partendo dal wabicha. Egli ridusse la stanza del tè ad un piccolo spazio separato dal mondo esterno, con un ingresso molto basso in modo che tutti dovessero inchinarsi agli altri prima di entrare, senza differenze tra nobili e gente comune. Oda Nobunaga (1534-82) fu il primo ad assumere Sen no Rikyuu come maestro del tè. Dietro il canone estetico della cerimonia del tè di Rikyuu c’era il pensiero di riportare la cultura giapponese alla sua radice (anche se alcuni ritengono fosse stato influenzato dal cristianesimo e la cerimonia del tè ispirata all’eucaristia), la cerimonia alla semplicità e perfezione dell’attimo: "Qui e ora, nella purezza dell’attimo". Un poema del monaco Dairin Soutou afferma che "il sapore del tè e il sapore dello zen sono uno solo". La morte di Rikyuu è dovuta unicamente alla sua coerenza con lo studio dello zen fatto presso il Daitokuji. Toyotomi Hideyoshi, che aveva riunificato il Giappone nel 1590, avrebbe voluto un rituale più sfarzoso e interpretò le ritrosie di Rikyuu come una critica al suo potere. Hideyoshi gli ordinò di suicidarsi tramite seppuku ed egli eseguì. Nel film "Morte di un maestro del tè", il regista Kumai Kei riesce a dipingere con pochissime parole il clima che si respirava nel Giappone di quel periodo: "Erano tempi di guerre civili. Assorti nella cerimonia del tè, i guerrieri dimenticavano ogni cosa prima di buttarsi nella mischia, dove incontravano la morte". Alla morte di Rikyuu, suo genero Shoan ereditò la casa di famiglia a Kyoto. Quando questi si ritirò, fu il nipote di Rikyuu, Soutan, a succedergli. Quando anche Soutan si ritirò, divise la proprietà fra i tre figli. La parte anteriore dell’edificio principale venne dato a Koshin Sosa, Senso Soushitsu ereditò la parte posteriore, mentre una casa sulla strada Mishankoji venne data a Ishio Soshu. Le scuole iniziate dai tre figli vennero così chiamate Omotesenke (anteriore), Urasenke (posteriore) e Mushanokoujisenke.
Anche alcuni discepoli di Rikyuu formarono delle scuole: la scuola Enshuu fondata da Kobori Enshuu, la scuola Sekishuu da Katagiri Sekishuu e la scuola Souhen da Yamada Souhen. Tuttavia, con il collasso del sistema feudale, molte di queste scuole caddero in sventura. Oggi solo la scuola Urasenke gode di un buon seguito e si è diffusa in tutto il mondo. Il maestro Sen Soushitsu rappresenta la 15° generazione della famiglia Sen.
(posteriore) e Mushanokoujisenke.

Note alla seconda puntata

(1) La storia giapponese è solitamente divisa in grandi intervalli di tempo chiamati età (preistorica, antica o classica, medioevale, moderna, contemporanea) che sono a loro volta divisi in intervalli più brevi (ma che durano pur sempre parecchi decenni o secoli) chiamati periodi o epoche. È consuetudine degli storici denominare i periodi in base alla sede del governo: così, ad esempio, il periodo Heian ed il periodo Edo sono rispettivamente i periodi in cui il governo era esercitato dalla corte imperiale di Heian (l’attuale città di Kyôto) e dal bakufu di Edo (l’attuale Tôkyô). Tradizionalmente in Giappone gli anni vengono indicati non attraverso un’unica successione numerica ininterrotta ma (ricalcando il sistema cinese adottato in Giappone a partire dal periodo Nara) attraverso una successione di ere (della durata di pochi anni) ed un numero progressivo dell’anno all’interno di ciascuna era (nengô). Questo sistema è ancora usato in Giappone (soprattutto nei libri di storia e nei documenti ufficiali) ma per tutti gli usi pratici viene sempre di più affiancato dal sistema occidentale. Il periodo Kamakura è caratterizzato dallo sdoppiamento del potere politico tra la corte imperiale di Heian e il nuovo governo militare dello shôgun. Questa situazione pone le basi per la nascita della società feudale e per l’inserimento di nuove classi (soprattutto la casta guerriera, ma anche il popolo) nel panorama della cultura e della musica. Nel 1180 Minamoto no Yoritomo aveva scelto Kamakura (una piccola città del Kantô, a sud dell’odierna Tôkyô) come base militare da cui dirigere la guerra contro i Taira; anche dopo la sua vittoria egli scelse di non trasferirsi nella capitale ma di rimanere a Kamakura per non perdere il contatto con le famiglie militari alleate su cui si basava il suo potere. A differenza dei suoi predecessori, Yoritomo non aspirava a cariche ufficiali a corte; nel 1192 si fece invece nominare shôgun (generale supremo dell’esercito) con il privilegio di poter trasmettere la carica ereditariamente ai propri discendenti. In origine il titolo di shôgun veniva attribuito in via temporanea ai generali incaricati di spedizioni militari contro i "barbari del Nord" (Ainu), ma con Yoritomo il titolo divenne permanente e si rivestì di un potere sempre maggiore.
Yoritomo confiscò le terre che erano state dei Taira e le distribuì ai propri alleati. Inoltre si assicurò il controllo anche sui rimanenti shôen istituendo la nuova figura dei jitô, funzionari militari che erano nominati direttamente da Kamakura e che avevano il compito di amministrare i territori per conto dei proprietari lontani (spesso nobili che risiedevano alla corte di Heian). A loro volta i jitô erano controllati da sovrintendenti provinciali (shugo) che avevano compiti di mantenimento dell’ordine pubblico e di polizia e che riferivano direttamente allo shôgun.
Inizia così quello che solitamente viene considerato come il periodo medioevale della storia giapponese. In effetti il rapporto esistente tra lo shôgun e i suoi sottoposti era molto simile a quello tra i signori feudali e i loro vassalli nel Medioevo europeo: si trattava di un rapporto basato sul legame personale tra signore e vassallo e tra le rispettive famiglie più che su una funzione svolta all’interno di un ordinamento burocratico. In questo rapporto il vassallo assumeva un obbligo assoluto di fedeltà verso il proprio signore, che si esprimeva soprattutto nel fornirgli truppe in caso di conflitto; in cambio il signore concedeva ai propri vassalli protezione in caso di aggressione e il diritto a godere delle rendite derivanti dalle terre date in concessione. Tutti questi funzionari militari erano nominati e dipendevano direttamente dallo shôgun; la loro attività era coordinata da uffici centrali dalla struttura molto semplice che risiedevano a Kamakura ed operavano soprattutto in base ad un diritto consuetudinario più che su leggi scritte.

(2) Lo Zen si diffuse in Giappone a partire dal 1215, grazie all’opera di un monaco chiamato Eisai, che si era votato alla pratica del Ch’an dopo aver frequentato la scuola Lin Chi, chiamata Rinzai presso i Giapponesi. Le origini del Ch’an, sono comunque molto più antiche rispetto a quelle dello Zen, infatti, esso era praticato presso i Cinesi già nel VII secolo, grazie all’opera di diffusione portata avanti dal patriarca Hui Neng.

(3) Il Rinzai ( in giapponese Rinzai-shū, in cinese Linji-zong) è una delle due principali sette del buddhismo Zen che, insieme alla forma Sōtō, è sopravvissuta fino ad oggi.
Essa si caratterizza oltre che per lo zazen (meditazione seduta), per l’utilizzo dei koan, sorta di problemi senza soluzione razionale che vengono proposti dal maestro al discepolo in un incontro personale detto sanzen che vengono praticati per alcuni anni e per il satori, illuminazione improvvisa.
Fondatore dello Zen Rinzai fu Lin-chi Yixuan (Rinzai in giapponese) durante la dinastia Tang nell’ 867. Fu introdotto in Giappone dal monaco Eisai (1141-1215) nel 1191.
Esso è praticato in Italia nel monastero chan (zen) di Scaramuccia, presso Orvieto.
La scuola Rinzai non è una scuola unica; è divisa in 15 sette a seconda del nome dei loro templi prncipali. La più grande e la più influente di esse è la branca Myoshin-ji, il cui tempio fu fondato nel 1342 da Kanzan Egen Zenji (1277-1360). Altre branche maggiori sono quelle di Nanzen-ji, Tenryū-ji, Daitoku-ji e Tofuku-ji.
La scuola Rinzai incoraggia un attivo perseguimento dell’illuminazione attraverso lo shock intellettuale dei koan o tramite gli sforzi strenui e la ferrea disciplina delle arti marziali. A differenza della scuola Rinzai, quella Sōtō insiste nello "stare seduti" (Shikantaza) come metodo che serve a rivelare la natura-Budda in ogni persona.
Il metodo Rinzai è stato adottato dalla casta dei samurai, mentre la Sōtō ha avuto un seguito nel popolo, come attesta il detto giapponese "Rinzai per gli Shōgun, Sōtō per i contadini"

(4) Ashikaga Yoshimasa (20 gennaio 1435 – 27 gennaio 1490) è stato un militare giapponese. Figlio di Ashikaga Yoshinori, fu l’ottavo shōgun dello shogunato Ashikaga.
Yoshimasa fu nominato Seii Taishōgun sei anni dopo la morte nel 1443 del suo predecessore, suo fratello Yoshikatsu.
Durante il governo di Yoshimasa il Giappone vide lo sviluppo dell’Higashiyama bunka, un movimento culturale fortemente influenzato dal buddhismo Zen e che diede origine alla cerimonia del tè (anche Sadō o via del tè), all’ikebana o (anche Kadō, via dei fiori), al teatro Nō e alla pittura con inchiostro cinese; in questo periodo si assistette anche alla diffusione del wabi-sabi e all’armonizzazione tra la cultura della corte imperiale (Kuge) e quella dei samurai (Bushi).
Nel 1464, Yoshimasa non aveva ancora un erede, così adottò suo fratello minore Yoshimi per evitare lotte di successione; tuttavia, nell’anno seguente gli nacque un figlio, e la temuta lotta di successione si verificò subito; nel 1467 la tensione esplose nella guerra Ōnin, dando inizio al periodo Sengoku che sarebbe durato più di un secolo. Lo scontro fu di fatto dovuto soprattutto ad una lotta interna del clan Hosokawa, divisa tra il Kanrei Hosokawa Katsumoto, che appoggiava Yoshimi, e suo suocero Yamana Sōzen, che sosteneva il figlio naturale di Yoshimasa.
Nel bel mezzo delle ostilità, nel 1473, Yoshimasa abdicò in favore di suo figlio Yoshihisa; nel 1489 costruì a Kyōto il tempio Jishō-ji (noto come Ginkaku-ji o Tempio del padiglione argentato), che sarebbe diventato una delle maggiori attrazioni turistiche della città.

APPENDICE
Note a margine della seconda puntata: che cos’è il teatro Nō.

Definizione
Generalmente si definisce Nō un dramma lirico giapponese. Tra i generi classici del teatro giapponese il Nō è quello più antico, si tratta di uno spettacolo aristocratico, se non esoterico, per lo meno di essenza religiosa. È uno spettacolo concepito per il divertimento del pubblico senza alcun secondo fine mistico. Originariamente il Nō aveva solo un lontanissimo rapporto con il nostro teatro nel quale l’elemento letterario è spesso preponderante. Per Zeami (1) l’essenza del Nō sta nella danza e nel canto; quanto al testo, che serve solo di sostegno, basta che esso sia conforme ad alcune regole elementari di composizione. Proprio per opera di Zeami, questo rapporto si è rovesciato poi a favore del testo. La maggior parte dei Nō, cioè quelli di struttura regolare, incominciano quando ogni azione è terminata, a volte secoli dopo la morte dell’eroe, da ciò proviene l’atmosfera caratteristica di questi drammi tra sogno e realtà. Spettacolo religioso, si è detto, ma comunque meno certamente delle tragedie di Racine anche se, nella maggior parte dei Nō, il secondo personaggio sia un monaco e il dialogo verta spesso su temi della dottrina buddista. Rimane comunque il fatto che il Nō ebbe la sua prima sede nei templi come spettacolo edificante, complemento liturgico delle feste religiose come lo sono stati i nostri “Misteri” nel teatro medioevale.
Il Nō è stato, dal XVI al XIX secolo, un’arte praticamente aristocratica e soprattutto dell’aristocrazia militare. Oggi la sua posizione è ambigua, i suoi testi scritti in una lingua vecchia di cinque secoli limitano la sua diffusione ad un’aristocrazia non più di corte ma di cultura. D’altra parte e principalmente dopo la progressiva applicazione della riforma dell’insegnamento del 1946, il livello di cultura del Giappone si è elevato molto rapidamente e supera oggi quello della maggior parte dei paesi del mondo, con la conseguenza che il Nō approfitta indirettamente di questa situazione. Possiamo dunque definire il Nō come “lungo poema cantato e mimato con accompagnamento orchestrale interrotto da una o più danze che possono non avere rapporto alcuno con l’argomento.

La scena

La scena, sopraelevata di mezzo metro circa rispetto al suolo, si compone di due parti (Vedi fig. alla fine) nettamente distinte; da una parte un palcoscenico, butai, quadrato lungo tre ken (1 Ken = 1,80 mt circa) prolungato in fondo da uno spazio di 1 ken per tre; dall’altra una parete hashigakari, coperto anch’esso da un tetto che si estende sulla sinistra la cui lunghezza, variabile, può raggiungere il triplo di quella del lato del palcoscenico. Alla fine del ponte, un sipario a righe verticali separa quest’ultimo dalle quinte, gakuya situate dietro il palcoscenico e il ponte di legno. Una balaustra costeggia il ponte dalla parte del pubblico. Quattro pilastri d’angolo del tetto delimitano il palcoscenico e servono da punti di riferimento al danzatore. Detti pilastri sono catalogati e servono alle posizioni dei personaggi: 1) shite-bashira, il pilastro dello shite; 2) il pilastro di riferimento, metsuke-bashira; 3) il waki-bashira. Il pilastro del waki, il monaco; 4) fue-bashira, il pilastro del fue, il flauto. Il palcoscenico infine è chiuso da uno stretto balcone sul prolungamento di destra da uno stretto balcone dove siede il coro.Lo spazio dietro il palcoscenico verso il fondo è riservato ai musicisti secondo un ordine stabilito (vedi fig.) e dietro di loro sono seduti i kōken, i sorveglianti che vegliano sul buon andamento dello spettacolo. Questo spazio è inoltre riservato a quell’attore che siede di spalle al pubblico che convenzionalmente è considerato invisibile per il pubblico, . Infine, in fondo a destra del kōken-za, c’è una porticina bassa, kiri-guchi, che serve di passaggio ai sorveglianti ed a certi personaggi del dramma (per esempio quelli che sono uccisi sul palcoscenico, per l’uscita discreta dalla scena. All’entrata del ponte, di fronte al pilastro dello shite, si trova il kyō- gen- za, il posto del kyogen , dove prendono posto gli attori comici mentre aspettano l’intermezzo che divide la maggior parte dei drammi. Davanti al ponte, tre piccoli pini piantati ad intervalli regolari chiamati rispettivamente, partendo dal palcoscenico, “primo, secondo e terzo pino”, servono come punto di riferimento agli attori quando si spostano sul ponte (gli attori del Nō portano la maschera, quindi vedono poco). Sulla parete di fondo orientata verso sud è dipinto un vecchio pino con, alle volte, dei rami di pruno in fiore mescolati ai rami nodosi del pino ( il pino è l’emblema simbolico del teatro Nō). Mentre sulla parete laterale destra, accanto al pilastro del flauto (fue-bashira), sono dipinti dei bambù: pino, pruno e bambù sono considerate le tre piante del buon augurio costantemente riunite nell’iconografia giapponese. Dal centro del palcoscenico scende una scala che oggigiorno non è più utilizzata, ma un tempo serviva all’attore, vincitore di un concorso, per andare a ricevere il premio dal signore. Viene lasciato uno spazio di un metro circa ricoperto di ghiaia per simulare il cortile dei templi dove era nato il Nō. Sotto il palcoscenico, infine, sono sistemate enormi giare destinate a servire da cassa di risonanza per i “richiami del piede”. Gli spettatori sono installati di fronte al palcoscenico e alla sua sinistra, davanti al ponte sempre rivolti verso il palcoscenico. I posti migliori sono quelli centrali, davanti alla scala. Un tempo gli spettatori sedevano a terra sui cuscini, oggi alcune sale utilizzano poltrone ma questo accessorio del confort occidentale è rumoroso ed altera l’atmosfera classica del Nō.

Una giornata di Nō
Una rappresentazione di tipo classico è costituita di regola da cinque drammi tra i quali si frappongono delle farse ( kyōgen). Tutto l’insieme formato da cinque drammi e quattro kyōgen dura dalle otto alla dieci ore, da qui deriva il termine “giornata di Nō”. Bisogna dire che i giapponesi hanno comunque conservato l’abitudine ad utilizzare tempi lunghi per tutti i tipi di spettacolo come teatri di bambole, i kabuki, il cinema, un gusto che in occidente abbiamo perso da tanto tempo. Per i cultori del Nō, ridurre la durata dello spettacolo distrugge la bella armonia stabilita tra attori e pubblico e deprime l’importanza psicologica ed estetica dei testi. Infatti l’allestimento di un programma è studiato in modo tale da sintonizzare in ogni momento la recitazione col grado di ricettività del pubblico: attenzione crescente dal primo al terzo dramma, decrescente dopo. Il ritmo dell’interpretazione rallenta nella prima metà dello spettacolo per poi accelerare di nuovo nella seconda. Questo andamento si fonda sul principio jo, ha, kyū , “preludio, sviluppo, finale”, che regge il Nō fin nei minimi particolari. Jo è l’introduzione, l’avviamento, l’ouverture: ad assistere ad uno spettacolo si ritrovano centinaia di persone, a volte migliaia, ma ognuna di loro è ancora presa dalle sue preoccupazioni quotidiane, il compito strutturale del Nō è quello di portare, con un’opera rapida, brillante e senza complicazioni il pubblico a comunicare con lo spirito del Nō, unificare i pensieri di ognuno alla collettività. Questo risultato è ottenuto con l’interpretazione di un dramma detto del “waki” o votivo o di prima categoria. Un personaggio soprannaturale appare e predice prosperità e lunga vita a tutti. Anche se questa prima parte non è considerata un ottimo Nō, non importa, basta calamitare l’attenzione del pubblico per prepararlo a gustare un piacere estetico superiore. Questo piacere gli verrà riservato subito dopo con l’elemento ha, distillato nel corso dei tre drammi successivi. Anche questi tre drammi devono seguire il principio jo, ha, kyū ed in particolare il secondo che è doppiamente ha e costituisce il massimo del raffinatezza.
Il primo dramma, di tipo ha è un’opera di ashüra, il guerriero. Gli ashüra sono i guerrieri morti in combattimento, condannati a battersi senza fine contro un nemico inesauribile. Quasi tutte le opere di questo tipo sono strutturate allo stesso modo. Un santo monaco si ferma una sera su un campo di battaglia, un vecchio gli racconta gli episodi del combattimento, poi sparisce rivelandosi un spettro di uno degli eroi caduti quel giorno. Il monaco decide di passare la notte in preghiera ma nel mezzo della notte lo spettro torna sotto l’aspetto di guerriero che fu un tempo. Se sia sogno i realtà, nessuno può dirlo. In ogni caso, l’ombra, costretta a confessare i sui crimini, rivive le antiche lotte mimando: salta gira, volteggia ed alla fine stramazza al suolo. A volte le preghiere del monaco liberano quest’anima dalla sua condizione, a volte no.
Poi viene “l’opera di donna” caratterizzata dallo yūgen, “l’incanto sottile”, qualità indispensabile per lo “sbocciare del fiore” secondo Zeami. La struttura dei quest’opera è spesso analoga a quelle ashüra con l’unica differenza che il monaco vedrà apparire una donna d’altri tempi, invece che un guerriero: un’eroina di una celebre storia d’amore, il personaggio di un romanzo. L’incanto di quest’opera sta nella bellezza degli atteggiamenti, nella grazia della danza, lenta, quasi statica, nella dolcezza del canto.
Arrivati a questo punto anche per un amatore sperimentato la terza opera della giornata costituisce una dura prova dalla quale esce affascinato ma mentalmente stanco. Allora bisogna “ risollevarlo” a poco a poco. A questo servono le due ultime opere di cui una appartiene al gruppo ha di cui essa costituisce l’elemento kyū, accelerato, rapido e l’altra il kyū finale, l’ultimò della giornata.
La struttura della prima opera è l’abbozzo di un vero dramma che racconta un’azione e non più una visione. Il waki in questo caso non è più uno spettatore ma il compagno dello shite. Bisogna distinguere in questa categoria l’importante gruppo delle “folli”. Si tratta di una donna diventata pazza in seguito alla perdita di un bambino o del marito, essa erra miseramente fino a quando non abbia ritrovato insieme all’amato la ragione perduta. A volte non trova che una tomba. In quest’ultima serie di opere i personaggi secondari, tomo, tsure, possono essere abbastanza numerosi, lo shite non porta più la maschera poiché la distanza nello spazio e nel tempo che la maschera crea tra lo shite e il waki non ha più senso essendo due personaggi reali, contemporanei, ma comunque il viso dell’attore deve rimanere impassibile, come una maschera.
Si arriva così alla quinta parte del programma: il kyū finale. Molto più animata, essa è in genere un’opera di “demoni” che può essere sostituito da uno spettro demoniaco, ad esempio uno spettro di donna gelosa. La struttura di questo Nō è classica: un monaco incontra un vecchio, oppure una giovane donna che in seguito si rivela essere un demone. Il tipo del demone è caratterizzato da una danza violenta l’hataraki o “movimento forzato” in opposizione alla danza di tipo mai tutta “incanto sottile” (yūgen).

Note

(1) Zeami Motokiyo (1363 circa - 1443 circa), conosciuto anche col nome di Kanze Motokiyo, fu un attore di teatro Nō, un drammaturgo, un teorico dell’era Muromachi (1333-1568) ed un pensatore giapponese.
Zeami rese il Nō un’importante forma teatrale; ne fissò la forma e il canone artistico sia sul piano della recitazione sia su quello della struttura drammaturgica e della scenografia. Con il padre Kan’ami Kiyotsugu, Zeami si esibì nel 1374 davanti a Yoshimitsu, shogun del clan Ashikaga, che ne fece il suo protetto.
Dai circa cinquanta drammi scritti da Zeami emerge una forma di Nō fortemente simbolica e idealizzata, caratteristica che è particolarmente evidente in Izutsu e Takasago, capolavori connotati da un denso linguaggio poetico. I suoi scritti teorici, quali Fushi kaden (1400-1418, tradotto in italiano come "L’insegnamento dello stile e del fiore"), si concentrano sull’hana, il fiore: lo spettatore deve avere l’impressione che ogni personaggio, anche il più umile, porti come ornamento un ramo fiorito.
Tra gli scritti si trovano ardite speculazioni intellettuali e consigli pratici di tecnica scenica. Nel 1422 Zeami divenne un monaco zen; nel 1429 Yoshinori, nuovo shogun Ashikaga dai gusti meno raffinati del predecessore, gli preferì un Nō più grezzo e arrivò addirittura a vietare al drammaturgo l’ingresso a palazzo. L’opera di Zeami venne ripresa e fu rappresentata con i più grandi onori dopo la morte di Yoshinori.

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