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Sosteniamo il popolo palestinese con il Commercio Equo e Solidale

21 aprile 2008

LiberoMondo collabora ormai da diversi anni con organizzazioni che lavorano in Palestina e si confrontano quotidianamente con una situazione che, con un eufemismo, potremmo definire complicata. Qui di seguito riportiamo un contributo di Hadas Lahav, di Sindyanna of Galilee, gruppo con cui LiberoMondo si relaziona fin dal 2003.

I Checkpoints israeliani e il sapone di Adnan Tbeili

di Hadas Lahav coordinatrice di Sindyanna
CHALLENGE - settembre-ottobre 2007

Il Signor Adnan Tbeili produce saponi per Sindyanna of Galilee, che li esporta in tutto il mondo. Da aprile di quest’anno (2007) non gli è stato possibile ottenere un permesso per entrare in Israele. Noi di Sindyanna abbiamo cercato di intervenire grazie all’aiuto di un avvocato. Abbiamo mandato lettere all’Amministrazione Civile e al Consigliere Legale della "regione Judea e Samaria". Nulla di tutto ciò ha avuto effetto. Dal 2000, infatti, la possibilità di Tbeili di mantenere i suoi contatti superando le infinite serie di checkpoints che circondano Nablus è dipesa dalla "buon cuore" dei burocrati israeliani. La "zona industriale" di Beit Furik Fin dal 19 giugno avevo rinunciato ad attendere che Tbeili venisse da noi. Guidai attraverso la West Bank per visitare la sua unità produttiva, un’attività familiare che prosegue da tre generazioni. Sindyanna abitualmente incontra i suoi produttori, ma quando ci si reca nei Territori Occupati, nulla è di routine. Fortunatamente l’unità produttiva si trova nella "zona industriale" di Beit Furik (vedere la mappa). La parola "fortunatamente" può trarre in inganno. In questo caso non ha nulla a che vedere con l’idea di successo o abbondanza, ma solo con la posizione: se il laboratorio fosse a nord del checkpoints di Beit Furik, nei confini municipali di Nablus, non ci sarebbe assolutamente possibile visitarlo, e neppure Tbeili potrebbe fornire il suo sapone a noi in Israele. Il termine "zona industriale" è anch’esso ingannevole. Dieci laboratori familiari sono sparsi tra i terrazzamenti a est di Beit Furik. L’area fu scelta dall’Autorità Palestinese per essere il gioiello della corona della sua nuova economia. Ed è tutto qui: una fabbrica di sapone, un’altra di cibo per animali e alcune che producono blocchi in cemento. Di questo si tratta. Nessuna indicazione all’ingresso. Nessuna strada asfaltata. Nessuna linea telefonica. Nessun allacciamento alla rete
idrica. Elettricità fornita da Israele. Questo è ciò che la popolazione un tempo sognava potesse essere la Singapore del Medio Oriente. Sul tetto della fabbrica ci sono dieci grandi cisterne d’acqua. L’acqua qui costa 10 shekel (circa 1,73 euro) al metro cubo, in confronto ai 2,215 shekel pagati da una fabbrica in Israele. L’acqua è fornita dall’amministrazione locale di Beit Furik che la riceve da un pozzo nella valle di Beit Dajan. I vicini insediamenti ebraici di Itamar e Elion Moreh sono connessi ad un acquedotto che fiancheggia il checkpoints di Beit Furik. Prima dell’Intifada del Settembre 2000, l’Autorità Palestinese aveva raggiunto un accordo con la compagnia israeliana delle acque, Mekorot, per connettere Beit Furik con questo acquedotto. Avevano anche iniziato a costruire le infrastrutture. L’Intifada bloccò ogni cosa. Quattro mesi fa Tbeili è riuscito, a proprie spese, a far arrivare una linea telefonica alla fabbrica. Nel suo ufficio senza aria condizionata, può telefonare, usare il fax, mandare email e navigare in internet. Cose che noi diamo per scontate, sembrano miracolose qui. L’autorità Palestinese iniziò a lavorare a questa zona industriale nel 2000, prima dell’Intifada, e Tbeili fu il primo ad ottenere una licenza di costruzione. Egli comprò un lotto per 70.000 shekel (circa 11.800 euro), un affare. Aveva appena iniziato a costruire quando scoppiò l’Intifada. Solo nel 2005 riuscì a terminare i lavori. Egli trasferì quindi la sua produzione da Nablus a Beit Furik. Perché ci volle così tanto? Perché fino al 2005 Beit Furik fu chiuso ai mezzi di trasporto. Soldati e ammassi di rocce bloccavano l’ingresso e solo persone a piedi potevano entrare e uscire. Nel 2005 il "moderno" checkpoint di Beit Furik fu aperto e alla fine anche le automobili ebbero accesso al villaggio.

"La tela del ragno"

Tbeili vive in Nablus e il suo problema principale sono i checkpoint. Essi, come una ragnatela, intrappolano l’incerta economia palestinese. Per raggiungere il suo laboratorio Tbeili deve per prima cosa oltrepassare il checkpoint di Beit Furik, a est di Nablus. Qui è possibile debba aspettare un’ora e mezza, due, tre ore o tutto il giorno, in base alla situazione legata ai problemi di sicurezza. Al checkpoint di Beit Furik è permesso il passaggio solo alle persone in possesso di un documento di riconoscimento che attesti la loro residenza a Beit Furik o Beit Dajan. I residenti in Nablus possono transitare solo attraverso uno degli altri tre checkpoint alternativi: Hawara a Sud, Beit Iba a ovest, o Badan (vicino a Taluna) a nord. Chiunque voglia passare attraverso Beit Furik deve quindi essere in possesso di due carte di identità, una che riporti la residenza a Nablus e un’altra con la residenza a Beit Furik.
Ogni giorno Tbeili è raggiunto al laboratorio da suo padre di 76 anni e da A.S., 60 anni, padre di quattro figli, che un tempo possedeva un proprio laboratorio di produzione di sapone in Nablus. Come molti altri, A.S. cessò la propria attività durante l’Intifada e diventò un lavoratore "dipendente". A.S., rifugiato proveniente dal villaggio di Sarafand vicino a Ramle, lavora durante il giorno nel laboratorio di Tbeili e la notte rimane come guardiano. Dopo il trasferimento dell’attività di Tbeili a Beit Furik, i lavoratori del suo laboratorio di Nablus non poterono attraversare il checkpoint. Molti provenivano da Salem, che Israele considera parte dell’area di Nablus. Oggi i suoi
dipendenti provengono da Beit Futik e Beit Dajan, in quanto non separati da checkpoint. Egli dà lavoro a 6 persone, i quali sono i soli delle rispettive famiglie che provvedono al sostentamento dei congiunti. Nel 2000, egli dava lavoro al doppio delle persone. Le ragioni, secondo Tbeili, sono due: le strade sono chiuse e le persone non hanno soldi. "Prima dell’Intifada vendevo ogni mese sapone per un
valore di 150-250 mila shekel, di questi circa 100 mila sul mercato israeliano. Oggi non raggiungo i 50 mila shekel, dei quali meno del 20% in Israele. Ci sono giorni in cui non arrivo a più di 100 shekel." In automobile il tragitto sulla strada principale da Beit Furik a Hawara necessità di meno di dieci minuti. È una bella strada che si snoda tra le colline, con vista su uliveti e campi arati. È quasi deserta, in quanto percorribile solo dagli israeliani. Un palestinese sorpreso con la sua automobile su questa strada verrebbe imprigionato e multato, se non gli sparano prima. Un abitante di Beit Furik che vuole raggiungere Hawara, deve quindi dirigersi a Nablus passando attraverso il checkpoint di Beit Furik. Da qui deve guidare per tre chilometri fino al checkpoint di Hawara. Se riesce ad attraversarli, può finalmente raggiungere la sua destinazione. Un percorso in auto di dieci minuti si è così trasformato in un tragitto di ore. Un camion carico di merce, diretto da Beit Furik verso qualsiasi destinazione nella West Bank, è condannato a percorrere lo stesso arduo tragitto.

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