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Paradossi della guerra di civiltà: Il crack della finanza occidentale può essere salvato dall’Islam

24 novembre 2008

Che cos’è l’economia islamica?

Il sistema finanziario non risponde più agli imput che governi e banche centrali sfornano a getto continuo (iniezioni di liquidità, salvataggio delle banche, tagli dei tassi d’interesse). Crolla il prezzo del petrolio e delle altre materie prime. La condizione di relativa tranquillità che gode la finanza islamica, dipende da due fattori: il primo è che parte delle enormi riserve di liquidità è costituito dagli introiti della vendita del greggio, il secondo è dato proprio dalla matrice "islamica" di molte banche, assicurazioni, finanziarie locali.

L’osservanza dei precetti del corano, infatti rappresenta un antidoto efficace contro gli eccessivi rischi speculatori, propri della cosiddetta "economia di carta". I precetti del corano vietano, oltre agli interessi sul prestito, anche gli investimenti in settori particolarmente rischiosi o in attività economiche che non godono di buona salute e con bilanci troppo esposti.

Allo scivolone delle borse internazionali ( WallStreet -8%, Francoforte e Parigi -11%, ecc.) segue quello dell’econmoia reale. Il petrolio è tornato sotto gli 80 dollari al barile e le altre materie prime (commdities) calano con numeri a due cifre, né Bush, nél il G7 riescono più a infondere fiducia, aumentano i sussidi di disoccupazione e le casse integrazioni (vedi FIAT). Dopo le dichiarazioni di guerra dell’11 settembre "all’impero del male" adesso tocca fare i conti (come del resto è sempre stato fatto senza interruzione) con "l’islam" che qualche ricettina forse sotto sotto ce l’ha, per provare a curare la malattia contagiosa del capitalismo occidentale: "profitto a tutti i costi".

Sarà un caso, ma ultimamente si sente timidamente parlare di Finanza islamica, che ha caratteristiche diverse dalla economia liberista imperante, per non parlare della "finanza creativa" di Tremonti.

Ma che cos’è la Finanza islamica, e in che cosa consiste?

La Finanza islamica è basata su alcune interpretazioni del Corano. I suoi due pilastri centrali consistono nel fatto che non si possono ottenere interessi sui prestiti (divieto del riba)e che bisogna effettuare investimenti socialmente responsabili. La differenza fondamentale dalla finanza tradizionale è il divieto di guadagnare sugli interessi, dato che l’obbligo di investire in modo socialmente responsabile non è diverso da quelli presenti in varie altre religioni. L’interesse non è legittimato come titolo di risarcimento per chi immobilizza del denaro per un certo periodo per tenerlo a disposizione del debitore. L’interesse risk-free è considerato usura, indipendentemente dall’entità dell’interesse applicato. Per il principio del gharar, è immorale qualunque interesse legato a un’assenza di rischio e incertezza, quindi ricorrere o prestare denaro a persone fisiche e giuridiche che praticano la leva finanziaria, il carry trade, e altre forme di speculazione e l’arbitraggio. Ad esempio, i fondi di investimento islamici escludono per statuto le società che hanno un rapporto superiore del 30% fra debiti e capitale sociale, fra le quali potrebbero esservi società che ricorrono alla leva finanziaria per fare profitti. L’interesse è riconosciuto come premio di rischio legato a una qualche forma di investimento. Questi principi penalizzano alcuni ambiti dell’attività bancaria, che non generano profitti e quindi nessuna remunerazione del capitale prestato. Il credito al consumo, i mutui ipotecari e immobiliari per l’acquisto della prima casa sono impieghi "legittimi" del denaro per il diritto islamico, ma non consentono al creditore il guadagno nella forma di una partecipazione ai profitti. Il risultato è quello di orientare i prestiti agli investimenti produttivi, gli unici che permettono una remunerazione, compatibile con il diritto islamico. Per il credito immobiliare e al consumo non è riconosciuto il costo-opportunità del denaro, pari aun interesse risk-free, ovvero quanto avrebbe potuto guadagnare il creditore se avesse investito altrimenti, tenendo conto che la garanzia del bene elimina il rischio del prestito. Il Corano, il libro sacro dell’Islam, vieta l’usura, il "riba", cioè gli interessi.[senza fonte] Molte delle peculiarità della finanza islamica, specialmente dell’attività bancaria islamica, vertono intorno a questo principio. Ad esempio le banche islamiche devono possedere quote di proprietà delle case piuttosto che stipulare una comune ipoteca. Altri esempi includono essenzialmente piani di spartizione di guadagni (profit and loss sharing - PLS), affitti e piani di riacquisto. Questi sistemi permettono alle istituzioni finanziarie di fare affari senza contravvenire al principio che vieta gli interessi. La seconda differenza tra la finanza islamica e quella tradizionale è l’enfasi sugli investimenti socialmente responsabili. Mentre secondo la tradizione occidentale è semplicemente possibile investire in modo responsabile per l’Islam ciò è strettamente obbligatorio.[senza fonte] Questo include l’obbligo di assicurarsi che i propri soldi non siano utilizzati per scopi non etici, come ad esempio droghe, armi, alcol, pornografia e terrorismo. Attualmente, anche nel mondo occidentale, molte istituzioni finanziarie offrono prodotti e servizi finanziari in accordo con le regole della finanza islamica. Fra i principali gruppi di diritto islamico: Dallah Albaraka Group (Arabia Saudita), Dar al Maal al Islami Trust (Arabia Saudita), Alrahj Group (Arabia Saudita) The Islamic Investor (Kuwait). L’UaB, Unione della banche Arabe, è la maggiore organizzazione degli istituti di credito di diritto islamico.

Le idee religiose, diventate economiche, plasmano tutta la giurisprudenza commerciale islamica e determinano la liceità dei contratti. I contratti conformi al Corano diventano di particolare interesse per il sistema bancario, in particolar modo per il credito (data la riba) e per l’investimento del risparmio. Ma c’è posto per forme e contratti di derivazione islamica in ambito occidentale? Gli Stati Uniti guardano alla finanza islamica con malcelato sospetto: lo scorso febbraio una società di venture capital con quartier generale a Ginevra (ove gestisce miliardi di dollari per conto di investitori musulmani) è stata messa sotto indagine dal fisco statunitense e accusata di legami, tramite un esponente della famiglia reale saudita, con l’estremismo musulmano di Hamas e Al-Qaeda. Citicorp, gigante americano, ha aggirato l’ostacolo, andando a operare in situ, tramite una filiale islamica in Bahrain, la Citi Islamic Investment Bank.

L’Europa come reagisce?

In Europa, l’ambiente finanziario inglese si è mosso concretamente, con la nascita della Islamic Bank of Britain e la West Bromwich Building Society, che già offrono prodotti Shari’ah compliant, in particolare mutui, attuati tramite lo schema del murabahah. La banca acquista l’immobile per conto del cliente e lo rivende, a rate, al cliente stesso a un prezzo maggiorato di un mark-up, che rappresenta la remunerazione associata al rischio della transazione immobiliare. Le banche islamiche inglesi si rivolgono a un target di circa due milioni di musulmani residenti in Inghilterra, ma sembrano strizzare l’occhio ai rampolli delle ricche famiglie mediorientali che da sempre studiano nelle università inglesi e che spesso si sono dimostrati generosi donatori, permettendo la nascita, per esempio, di interi dipartimenti di studi islamici e biblioteche. La forza economica dei petrolieri e dei ricchi uomini d’affari orientali spiegano anche la nascita del braccio "islamico" di Hsbc (chiamato Hsbc Amanah). I sukuk, invece, bond islamici basati sulla cartolarizzazione di immobili, hanno fatto la loro comparsa in Europa nel 2004 con una emissione per 100 milioni di euro da parte del land della Sassonia-Anhalt, interamente sottoscritta. Un grande successo europeo di pubblico, si direbbe: a ben guardare, però, il nocciolo è stato rappresentato da investitori istituzionali del Bahrain e degli Emirati Arabi Uniti. Il dato non stupisca: le istituzioni finanziarie islamiche hanno drammatici problemi di liquidità; non hanno un mercato interbancario, né un prestatore di ultima istanza e sono avide di strumenti del mercato monetario e obbligazionario Shari’ah compliant che permettano la gestione di tesoreria. Si è trattato di un public issue, ma i dati sembrano più simili a quelli di un private placement.

Se Dubai fa concorrenza a New York

Nonostante questi tentativi, non sembra tuttavia che la finanza islamica possa rivestire in Europa un ruolo comparabile a quella convenzionale: la situazione socio-economica di gran parte degli immigrati di religione musulmana, infatti, non permette loro di diventare un target appetibile. L’interesse delle grandi banche per la finanza islamica sembra più un tentativo di attrarre verso l’Europa il risparmio e gli investimenti dei capitali orientali, spesso in fuga dagli Stati Uniti in risposta all’islamofobia scatenata dagli eventi dell’11 settembre. La stima dei capitali in gioco è difficile, perché non vi è una aggregazione omogenea dei dati e vi è una generale mancanza di trasparenza. Ma una cosa è certa: le borse islamiche macinano record e tassi di crescita delle contrattazioni impressionanti. Nel solo Golfo Persico, si stima che gli investitori abbiano a disposizione una liquidità pari a 1.500 miliardi di dollari. Dati aggiornati del Fmi parlano di circa 250 miliardi di dollari distribuiti presso circa trecento intermediari finanziari islamici. I numeri ufficiali, a guardare bene, sono fortemente sottostimati, dal momento che gran parte dei "risparmi" dei signori del petrolio sono gestiti tramite mandati segregati la cui consistenza viene tenuta confidenziale. Cifre da capogiro, che ingolosiscono banche e gestori. Se l’interesse verso i petroldollari (o euro) e la loro gestione in Europa rappresenta la ratio alla base degli sforzi delle banche paneuropee (potremmo citare, tra le altre, Commerzbank, Deutsche Bank, Pictet&Cie), sembra una strategia che muove i passi nella direzione sbagliata. I paesi afferenti al Gcc (Gulf Cooperation Council), dove esiste una robusta domanda di prodotti conformi alla legge coranica da parte dei high net worth individuals, si stanno, infatti, attrezzando da sé. A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, è stata emanata nel 2006 una nuova e completa legislazione sull’investimento collettivo del risparmio per facilitare la nascita di un centro finanziario indipendente on-shore, il Dubai International Financial Centre, che punta a diventare un mercato di prima grandezza nel Medio Oriente, alla pari di New York, Londra o Singapore. Il fine è far convergere nel nuovo centro i risparmi derivanti dal petrolio, non ultimi i circa 15 miliardi di dollari (in crescita del 10-15 per cento all’anno) investiti in fondi di investimento islamici e tutti gli investimenti sparsi in Occidente. Good bye, America.

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