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A Cancun vince la realpolitik. Il clima resta in pericolo

12 dicembre 2010

Si è chiusa a Cancun la Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sul clima. In un’atmosfera di aspettativa generale passa un testo di estrema mediazione, grazie al ruolo di facilitazione avuto dalla presidenza messicana che permette di far ripartire un percorso multilaterale messo in crisi dalle forzature di Copenhagen. Si punta la prua verso Durban con un consenso quasi unanime, mentre la Bolivia ritira il sostegno all’approvazione ai due documenti.
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Si è chiusa a Cancun la Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sul clima. In un’atmosfera di aspettativa generale passa un testo di estrema mediazione, grazie al ruolo di facilitazione avuto dalla presidenza messicana che permette di far ripartire un percorso multilaterale messo in crisi dalle forzature di Copenhagen. Si punta la prua verso Durban con un consenso quasi unanime, mentre la Bolivia ritira il sostegno all’approvazione ai due documenti. La mancanza del secondo periodo di impegni per i Paesi industrializzati post 2012, la mancanza di certezze sui tagli delle emissioni per i Paesi avanzati, l’assenza di chiarezza sulle fonti di finanziamento del Green Fund e sulla presenza della Banca Mondiale come gestore dei finanziamenti, il non riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, queste le motivazioni.
“E’ stato un anno di lavoro per recuperare la fiducia dopo il disastro di Copenhagen” ha dichiarato Alberto Zoratti, dell’organizzazione equosolidale italiana Fair, “è ripartito un percorso multilaterale, l’unico possibile e necessario per affrontare un problema così vasto e complesso come il cambiamento climatico. Ma il tentativo di dichiarare come consensuale una decisione che non ha il consenso di un Paese come la Bolivia è un precedente un poco preoccupante, visto che le regole devono essere uguali per tutti”.
“Tenuto conto questo risultato importante, sia per il Messico che per tutta la comunità internazionale” continua Zoratti, “la sostanza del pacchetto bilanciato di Cancun è molto discutibile. A cominciare dalla temperatura di 2°C che è stata inserita come obiettivo massimo, che potrebbe portare a conseguenze pesanti per i Paesi più vulnerabili”.
Tra le novità del testo c’è il Green Fund, di 100 miliardi di dollari entro il 2020, nonostante i Pvs avessero chiesto un anno fa almeno 500 miliardi di dollari per fronteggiare l’adattamento al cambiamento climatico. Risorse che verranno mobilizzate e non stanziate, senza una chiarezza sulle fonti e con la Banca Mondiale con un ruolo di gestione evidente, nonostante le critiche pesanti sulle condizionalità dei propri prestiti ai Pvs e sull’impatto ambientale dei progetti che ha sostenuto.
“La presenza della Banca Mondiale” chiarisce Zoratti, “rischia di trasformare i fondi per l’adattamento in prestiti con condizionalità pesanti, un rischio che non possiamo correre soprattutto per le economie più vulnerabili”.
Mancano impegni certi sul taglio delle emissioni per i Paesi avanzati in particolare per il secondo periodo post 2012.
“Un elemento estremamente delicato” continua Zoratti, “perchè non ci sono numeri chiari e certi su un impegno sostanziale di taglio delle emissioni. Siamo già a 394 parti per milione di concentrazione di CO2 ed il limite di 350 ppm, presente nelle bozze precedenti che si doveva raggiungere con tagli delle emissioni e procedure di rassorbimento, è stato cancellato. Così come il raggiungimento del picco di emissioni, che non ha, nei fatti, data certa. Una scelta dettata dai rapporti di forza e dalla realpolitik, ma che certamente non farà bene al pianeta”.
Prossima fermata Durban, nel 2011, dove alla COP17 le Parti dovranno, a questo punto necessariamente, trovare un accordo vincolante.

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