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Mercato Contadino e Commercio Equo e Solidale: un esempio concreto del “pensare globalmente e agire localmente”

19 maggio 2017

1. Visione globale della filiera agricola

Il risultato finale del processo storico di consolidamento dei processi di rivendita, lavorazione, catene logistiche e industrie annesse (chimiche e delle sementi …) è stato l’emergere delle moderne pratiche di appalto che hanno globalizzato le filiere agricole e le hanno rese più strettamente coordinate: l’attenzione si è spostata da quello che il fornitore può offrire a quello di cui ha bisogno il compratore. Non funziona più che gli agricoltori prima producono e poi cercano un mercato. Al contrario, coloro che controllano le catene di approvvigionamento decidono quali sono i bisogni dei consumatori e poi adattano le filiere di conseguenza. Le norme tecniche e le richieste dei compratori leader sul mercato hanno portato alla ristrutturazione delle filiere, favorendo i produttori, esportatori, industrie e soggetti fornitori di informazioni che più sono in grado di soddisfare le loro richieste.
L’aumento della concentrazione del settore agrochimico negli ultimi vent’anni è piuttosto impressionante: mentre le 20 maggiori aziende rappresentavano il 90% delle vendite globali alla fine degli anni ’80, questo numero è sceso a sette nel 2002 (Syngenta, Aventis, Monsanto, BASF, Dow, Bayer e DuPont). Oltre al settore agrochimico, queste compagnie hanno investito anche nel settore delle sementi. Di conseguenza questo a portato alla diffusione a livello globale delle catene di supermercati, apparsi prima in Europa e negli Stati Uniti, intorno agli anni ’90. Nel 1992, le cinque catene più grandi di supermercati negli Stati Uniti occupavano il 19% delle vendite alimentari. Nel 2005, secondo stime piuttosto caute la percentuale si aggirava intorno al 28,7%. Quando iniziò a vendere alimentari a metà degli anni ’90, Wal-Mart era un distributore piuttosto piccolo. Adesso si posiziona in cima alla lista dei rivenditori alimentari più grandi del mondo, e da solo rappresenta il 6,1% delle vendite al dettaglio globali. Nel Regno Unito, i primi quattro rivenditori rappresentano il 75% del mercato alimentare e la concentrazione delle cinque più importanti catene di supermercati in Europa nel settore alimentare supera in media il 50%. Nei paesi in via di sviluppo, la “rivoluzione dei supermercati” iniziò nei primi anni ’90 ed è continuata fino ad oggi, causando anche una rapida ascesa delle quote al dettaglio nel settore della rivendita alimentare, a danno dei negozi tradizionali e dei mercati alimentari. Questo ha comportato un’azione di difesa da parte dei piccoli produttori che hanno cercato di organizzarsi collettivamente. Ma anche quando i piccoli agricoltori cercano di organizzarsi in cooperative, sindacati, etc., in assenza di norme pubbliche, la concentrazione di potere nelle mani di compratori viene anche usata per minare o impedire le loro iniziative. Questo è il caso, in particolare, del Messico, del Nicaragua e del Perù, dove più del 70% delle esportazioni di caffè sono veicolate da esportatori privati che non producono caffè, ma lo comprano soltanto dai piccoli agricoltori tramite gli intermediari locali. È la combinazione della concentrazione del potere nella filiera agricola con la liberalizzazione e “finanziarizzazione” del mercato mondiale che comporta gravi conseguenze per i piccoli agricoltori, soprattutto per quanto riguarda l’aumento della pressione sui prezzi e una maggiore volatilità.
Pertanto non si può pensare di fare delle scelte solo sulla base delle proprie egoistiche preferenze economiche, ma anche in base alle proprie opinioni su ciò che è appropriato per noi e per la società intera. Le decisioni quindi riflettono i nostri valori e la nostra idea di bene comune. Inoltre, non ha senso mettere i consumatori da una parte e gli agricoltori e i lavoratori dall’altra. Il deterioramento delle condizioni commerciali e della qualità della vita degli agricoltori e dei lavoratori, sia in Europa che nel resto del mondo, crea importanti rischi di mancanza di disponibilità dei prodotti e di inaccessibilità dei prezzi per i consumatori a medio termine, riducendo, alla fine, il loro benessere.
La necessità di creare una resistenza ad un concezione del mondo basata sul denaro e sul profitto ha portato molte persone a costruire un rapporto diverso tra produttore e consumatore e per questo sono nati il Commercio Equo e i Mercati Contadini, gli uni e gli altri uniti da un comune progetto di miglioramento della vita quotidiana e di liberazione dalla tirannia dei prodotti dell’agroindustria e della grande distribuzione organizzata (GDO). Entrambi sono uniti in una comunità del cibo in cui ciascuno può contare qualcosa di più e può riaffermare i propri diritti: il diritto dei produttori alla giusta remunerazione del proprio lavoro ed il diritto dei consumatori alla sovranità alimentare, alla libera scelta di un cibo buono.

2. Il Mercato Contadino

Il mercato del contadino (Farmers Market) nella sua espressione concreta e reale non è semplicemente la vendita dal produttore-imprenditore agricolo al cittadino consumatore, ma si concretizza in un contesto specifico, particolare, sui generis, ove il consumatore nello stesso momento in cui visita i gazebo dei contadini, percepisce, sente tangibilmente l’azienda o la fattoria agricola, si interfaccia con il contadino produttore, dialogando e creando quel rapporto di conoscenza e fiducia che dovrebbe addurre il consumatore a visite dei campi ove potere vedere e toccare con mano le caratteristiche qualitative dei prodotti, le metodologie colturali seguite dal contadino e quant’altro. Scegliere cibo locale e guardare negli occhi i produttori del proprio cibo ha significato dire molti no all’ingiusto sistema internazionale di produzione e distribuzione del cibo. Significa dire no all’anonimo cibo di plastica che corre su e giù per le strade del mondo, su ruote e scafi che inquinano; no ai prodotti alimentari delle multinazionali che impiegano una quantità di energia 10 volte superiore a quella che si utilizza in un piccolo campo agricolo per produrre la medesima quantità di cibo. Abbiamo detto si a ‘cibo e salute’, a un alimentazione corretta, a prodotti alimentari sani e genuini, a fare la spesa risparmiando sui prezzi di trasporto e di intermediazione commerciale tra produttore e consumatore, guadagnandoci in qualità e affidabilità. Dietro il cambiamento di piccoli gesti quotidiani finalizzati alla ricerca del miglior cibo per nutrire se stessi ed i propri figli si è realizzata per molte famiglie una grande rivoluzione senza uscire dal cortile di casa. Con il rispetto dei principi della sovranità alimentare e della biodiversità contribuiamo a salvaguardare i monumenti agroalimentari del nostro territorio. I produttori, da parte loro, hanno trovato nei consumatori gli alleati di strada per riscattare le proprie difficili condizioni di vita dai padroni del ciclo delle intermediazioni commerciali.

3. Il Commercio Equo e Solidale

Il Commercio Equo (o Fair Trade, in inglese) è una forma di commercio che garantisce al produttore ed ai suoi dipendenti un prezzo giusto e predeterminato, assicurando anche la tutela del territorio. Si oppone alla massimizzazione del profitto praticata dalle grandi catene di distribuzione organizzata e dai grandi produttori. Carattere tipico di questo commercio è di vendere direttamente al cliente finale i prodotti, eliminando qualsiasi catena di intermediari. È, dunque, una forma di commercio internazionale nella quale si cerca di far crescere aziende economicamente sane nei paesi più sviluppati e di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e rispettoso; in questo senso si contrappone alle pratiche di commercio tradizionale. Infatti i produttori agricoli di queste merci formano una miriade di piccole entità, che non hanno alcuna forza contrattuale da opporre ai grossisti locali (e/o internazionali) presso i quali si riforniscono le aziende multinazionali, nel determinare il prezzo della materia prima, consentendo così a questi operatori la determinazione del prezzo, che viene ovviamente tenuto il più basso possibile. Uno dei punti qualificanti del commercio equo e solidale è quello di promuovere cooperative di produttori sufficientemente grandi da potersi confrontare con successo ai grossisti. L’attuale movimento di commercio equo e solidale si formò in Europa negli anni sessanta. Il commercio equo e solidale veniva spesso visto, in quel periodo, come un gesto politico contro il neo-imperialismo: movimenti di studenti radicali incominciarono a prendere di mira le società multinazionali. Lo slogan di quel periodo Trade not Aid (Commercio, non aiuti) ebbe il riconoscimento internazionale nel 1968, quando fu adottato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) per porre l’accento sull’istituzione di rapporti di commercio equo e solidale con il mondo in via di sviluppo. a determinazione dei prezzi, che vengono stabiliti da soggetti forti (multinazionali, catene commerciali) indipendentemente dai costi di produzione che sono a carico di soggetti deboli (contadini, artigiani, emarginati). Le sfide globali del Commercio equo si possono così riassumere sinteticamente:
• l’incertezza di sbocchi commerciali dei prodotti, che impedisce a contadini e artigiani di programmare seriamente il proprio futuro;
• il ritardo dei pagamenti, ovvero il fatto che gli acquirenti paghino la merce molti mesi dopo la consegna e spesso anni dopo che sono stati sostenuti i costi necessari alla produzione (infrastrutture, semenze, nuovi impianti arborei, materie prime), che favorisce l’indebitamento di soggetti economicamente deboli e un circolo vizioso che porta spesso all’usura;
• la mancata conoscenza, da parte dei produttori, dei mercati nei quali vengono venduti i loro prodotti e dunque la difficoltà da parte loro di riuscire ad adeguarsi e tanto meno a prevedere mutamenti nei consumi.
• l’impiego di tecniche di produzione volte alla riduzione dei relativi costi, che nel medio-lungo periodo si rivelano particolarmente negative per il produttore e/o la sua comunità;
• ricorso al lavoro di fasce della popolazione che nei paesi ricchi viene particolarmente tutelata (bambini, donne incinte, ...) al fine di aumentare i quantitativi prodotti, con rinuncia alla formazione dei giovani;
• l’impiego di persone con scarsa produttività (rispetto alla concorrenza), che non hanno di fatto possibilità di sopravvivere sul mercato;

Una caratteristica peculiare del commercio equo e solidale è la filiera corta, ovvero l’esistenza di un ciclo produttivo-commerciale breve per la materia prima fatto di, al massimo, tre o quattro passaggi (produzione, trasporto, stoccaggio nei magazzini degli importatori, distribuzione presso i dettaglianti che riforniscono il consumatore finale), che rendono il prodotto facilmente rintracciabile. In questo, il Commercio equo e solidale si distingue fortemente dal commercio tradizionale, la cui filiera è spesso fatta di numerosi passaggi che remunerano notevolmente chi mette il prodotto sul mercato, a scapito di chi produce.
Gli acquirenti (importatori diretti o centrali di importazione) dei paesi ricchi, si assumono determinati impegni concreti quali:
• Prezzi minimi garantiti (determinati in accordo con gli stessi produttori; il prezzo corrisposto deve permettere una vita dignitosa ai produttori, permettere investimenti nel campo sociale e far sì che la produzione sia ambientalmente sostenibile)
• quantitativi minimi garantiti
• contratti di lunga durata (pluriennali)
• consulenza rispetto ai prodotti e le tecniche di produzione
• prefinanziamento

In conclusione, i Mercati del Contadino e il Commercio Equo e Solidale sono due realtà concrete che, con il rispetto dei principi della sovranità alimentare e della biodiversità, contribuiscono a salvaguardare il nostro ambiente ed i monumenti agroalimentari dei nostri territori avvicinandoci fortemente verso un’agricoltura e gastronomia della liberazione. Due realtà che, senza alcun finanziamento pubblico, pongono un argine al consumo di terreno agricolo, e pongono le basi per rivitalizzare l’economia locale, per creare valore e capitale sociale, per custodire culture autoctone e fondare economie locali, migliorare le nostre vite e quelle dei mondi che ci girano attorno, per creare quel mondo nuovo in cui, per parafrasare il Gabriel Marquez di “Cent’anni di solitudine”, “molte cose non sono più prive di nome e per citarle non è più necessario indicarle con il dito”.

Nettuno, 19 maggio 2017

Fiorenzo Testa
Associazione Acquadolce

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